È questo che deve fare la scuola? Dirigere il traffico? Così si ottiene solo gente ansiosa, paurosa e infelice, impreparata e asservita a falsi bisogni
“Mille vigili che dirigono il traffico, non sanno dirvi né perché venite né dove andate”. Negli ultimi giorni dell’anno scolastico, i “vigili” di Eliot sono per me quegli insegnanti che, alla maniera degli steward sugli aerei, spiegano agli studenti come raggiungere nel più breve tempo possibile le uscite di sicurezza.
Questa prassi ormai molto diffusa non ha altro scopo che facilitare gli studenti ed evitargli problemi. Il meccanismo prevede un dosaggio calibrato e concordato dei contenuti e dei tempi delle verifiche in modo tale che niente o quasi sia lasciato a quell’imprevisto che suscita il terrore di insegnanti e studenti. La maggior parte degli studenti si è ormai adattata così bene all’apparato di scorciatoie predisposto per loro che non solo riesce ad uscire a “riveder le spiagge” scolasticamente illesa, ma totalizza anche voti più che discreti in pagella.
Quasi tutti i docenti che praticano questo metodo lo fanno in buona fede. Lo ritengono “inclusivo”, in quanto permetterebbe a tutti di continuare gli studi al di là delle fragilità personali dei ragazzi (spesso solo presunte) e di imparare comunque qualcosa.
Sicuramente, in una certa misura e in casi di grave e documentabile svantaggio, è così. Ma, a parte chiedersi cosa significa veramente “inclusivo”, qual è il costo educativo e culturale che su scala più ampia le nuove generazioni pagano per il diffondersi di questo atteggiamento?
D’altronde, presi da questo impeto assistenziale, non ci si rende conto che il sistema non dà i frutti sperati e regge fin quando i ragazzi sono “protetti” a scuola. Solo per fare un esempio, già all’avvicinarsi della fine degli studi superiori aumentano i casi di studenti, anche i cosiddetti “bravi” (sono i casi più sconcertanti per i “docenti–vigili”), che crollano e “perdono colpi” all’ultimo anno o nell’imminenza degli esami. Questi mantengono una pur minima percentuale di imponderabilità che sempre più studenti non sono in grado di sostenere anche solo emotivamente.
Ma al fondo della questione c’è forse dell’altro. “Se Dio non ci avesse creati liberi noi non sbaglieremmo mai, nessuno potrebbe giudicarci e condannarci. Non sarebbe meglio per tutti?” È la domanda di un mio studente di quinta, espressa dopo aver letto in classe la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij.
Già, non sarebbe meglio liberarsi della libertà? O meglio, a pensarci bene, il problema del mio studente non è tanto la libertà quanto il suo esercizio. Ciò che crea timore nei ragazzi non è l’affrontare le prove, semmai quello di non essere sicuri di essere amati lo stesso dai “grandi” (genitori e insegnanti) in caso di fallimento.
Come siamo potuti arrivare a questo?
In quasi tutte le culture antiche il timore della prova tipico dei giovani era temperato dall’accompagnamento rigoroso dei maestri. Questo non aveva lo scopo di evitare agli allievi la durezza della prova, ma di educarli ad una disciplina intellettuale e morale adeguata ad affrontarla, rimandando continuamente allo scopo ultimo: la conoscenza del vero e del bene.
È il “fatti non foste a viver come bruti…” evocato dall’Ulisse dantesco ai suoi amici, la posta in gioco di cui a scuola non si parla quasi mai. Il cristianesimo ha portato a compimento la già solida intelaiatura della “paideia” classica annunciando che anche la fragilità dell’uomo e il suo limite nel perseguire l’ideale con i relativi errori, possono essere fattori di crescita se amati e corretti.
Limitandoci alla scuola, un solido percorso educativo e formativo non dovrebbe essere privo di un riferimento a tutti questi aspetti, quasi scontati a dirli, ma ormai trascurati: accompagnamento personale ma puntuale, fedeltà al bene del giovane, rigore nello studio come passione al vero, serietà della prova, richiamo continuo dell’ideale ultimo, ripresa amorosa e correzione nel caso di un fallimento.
L’impressione è che, al contrario, nella scuola ci si richiami di volta in volta all’uno o all’altro di questi elementi isolandoli e riducendoli ad un buonismo facilone e psicologistico o ad un rigorismo fine a sé stesso. C’è anche chi li nega in blocco come ormai superati, proponendo astruse teorie pedagogiche “scientifiche” e favorendo lo stato di massima confusione che regna nella scuola riguardo al suo senso ultimo.
Il fatto è che, rifiutato ideologicamente lo sguardo antropologico unitario e realistico della tradizione cristiana che consentiva la considerazione equilibrata di tutti i fattori della persona del giovane, compresi sia la sua religiosità sia la sua capacità di male, si è affermata l’ultima versione della mentalità borghese, quella di quei giovani degli anni 80-90, padri, nonni, insegnanti dei nostri figli, che “non si riconoscono da salvare, sono a posto, a posto e contenti” (Luigi Giussani, Le mie letture, p. 128).
Sono gli abitatori di un mondo le cui “miserie non sono più cristiane”, un mondo, cioè, privo di segni del desiderio di Dio e possibilità di incontro con la sua misericordia, fatto semplicemente di problemi da risolvere su un piano umano, sociale, politico, psicologico, comunque sempre alla portata del potere umano.
Avendo smarrito per sé il senso del peccato, perché non esiste un vero e un bene oggettivi con cui paragonarsi, tentano presuntuosamente di programmare cose e persone, compresi i loro figli, per imporre la loro misura di un bene tutto secolare.
Queste persone fanno ai giovani una compagnia melliflua e solo apparentemente permissiva e chiudono i ragazzi in un cerchio di falsi bisogni, tra i quali quello del successo scolastico. Ma se il giovane tenta di uscire dal “brand” scelto per lui (fosse pure uno “trasgressivo”), questi adulti lo privano senza pietà del riconoscimento affettivo e lo condannano all’inferno dell’isolamento.
I giovani, se debitamente provocati, percepiscono ancora la menzogna di questi tentativi e attendono una compagnia diversa che li aiuti veramente a diventare uomini. Ne ho avuto un piccolo significativo esempio nell’imprevisto gradimento dei miei studenti di terza per il noto aforisma attribuito a Chesterton “la Chiesa non permette niente, ma perdona tutto; il mondo permette tutto, ma non ti perdona niente”.
Lo avevo proposto da commentare, tra molte altre riflessioni sulla Chiesa, nella verifica finale di religione cattolica. È stato il più scelto e leggendo insieme quello che avevano scritto ho potuto notare come abbiano tutti intuito la differenza tra una compagnia autentica e una falsa, riconoscendo che la Chiesa affianca l’uomo nell’esercizio della sua libertà senza fare sconti sul piano della verifica personale e del rischio necessario, ma sempre pronta a riabbracciarlo dopo ogni inevitabile e “necessaria” caduta nel suo cammino al destino. Mi sembra un modello educativo ancora attuale e da prendere, mutatis mutandis, in seria considerazione.
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