Il complesso di Achille non è cosa strana tra le persone geniali. È quell’eccellenza che si manifesta con tanta creatività, ma anche con tanto disagio mentale, come ho descritto recentemente su Bioethics Update. Sono soggetti in cui genio e sregolatezza si uniscono alla massima potenza. La causa? L’ansia vissuta da piccoli, tanta ansia, che non ha trovato un ambiente familiare accogliente, ma si è accentuata, è lievitata ed è diventata depressione, ansia cronica.
Tanti geni dell’arte, da Kafka a Flaubert, da Virginia Wolf a Poe, hanno avuto da adulti seri problemi psichici e al tempo stesso tanta creatività; insomma, un chiaro complesso di Achille.
Voglio qui solo ricordare due personaggi a tutti noi cari: Alessandro Manzoni e Cesare Pavese.
Manzoni non era quello che potremmo chiamare un bambino desiderato; tanto che fu mandato prestissimo a balia in una cascina di campagna e poi al collegio dei Padri Somaschi, segnato da bullismo per il quale, scriveva, “…mi chiudevo […] in una camera, e lì componevo versi”. Non so quando e se apprese che il suo vero padre non era quello che lui pensava, ma anche questo può averlo segnato. Fu un grande genio della scrittura; ma al tempo stesso portò con sé profonde ferite: crisi di ansia e di depressione, agorafobia e altro ancora.
Pavese ebbe un’infanzia tristissima. Una sorella e due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. La madre, di salute cagionevole, dovette affidarlo, appena nato, a una balia del vicino paese di Montecucco e poi, quando lo riprese con sé a Torino, a un’altra balia. Il padre morì di cancro al cervello quando il piccolo Cesare aveva cinque anni e nello stesso anno morì di tifo un’altra sorella. Anche per lui la vita adulta fu segnata da depressione che lo portò ad una fine precoce.
Vari autori, tra cui Freud, Sartre o Donald Winnicott si sono dedicati a studiare il rapporto tra genio e sregolatezza, tra creatività e disordini affettivi. E tra disordini mentali e prima infanzia oscura, e oscurata dai casi della vita. Che insegnamento ne possiamo trarre?
Per il pedagogista e il genitore, tanta, tanta responsabilità! Attenzione massima all’età meno considerata della vita: quella del lattante, dei primissimi anni di vita, quando i genitori e persino i medici pensano che il bambino non capisca quello che gli succede, come venga trascurato o (ugualmente sbagliato) che dimentichi tutto. Sorga allora una nuova puericultura che insegni uno sguardo pieno di intelligenza su questi mesi cruciali della vita.
Per il filosofo, che il dolore – seppur da evitare – è una possibile risorsa se si sa abbracciare e se qualcuno ci aiuta ad abbracciarlo e non esserne schiacciati. I casi di complesso di Achille sono chiari esempi di come il dolore infantile venga vissuto senza un porto sicuro dove elaborarlo e vincerlo. Ma abbiamo anche tanti casi di infanzie rovinose che hanno trovato un abbraccio vitale e un’elaborazione del dolore attiva e attenta. In fondo, i nostri talenti e le forme di espressione di tanti artisti non derivano da momenti di solitudine o tristezza che sono stati elaborati e sviluppati verso una creatività forse amara ma vitale? Insomma, quanto devono le nostre doti ad un complesso di Achille sfumato?
Il sociologo e il politico infine avrebbero delle belle domande da farsi. Non sarà che la grande diffusione di problemi psichici nei giovani e poi negli adulti delle ultime generazioni, è l’esito di una evaporazione dei genitori, strappati ai figli fisicamente dal lavoro e mentalmente da una società che non sa più dire mamma e papà?
Jaques Lacan spiegava che le psicosi hanno in gran parte alla base l’assenza di una figura che sappia regalare ai figli un sano rapporto con la realtà (lui chiamava questi quadri la “forclusione del nome del padre” e la “madre coccodrillo”). La stessa cosa cui ci richiama la psichiatra Erica Komisar in un recente libro sulla scomparsa del ruolo della madre.
La depressione, spiega Umberto Galimberti, oggi non è più dovuta a sensi di colpa, ma al mancato successo, imperativo categorico di una società americanizzata, tutta tesa alla performance, tutta tesa all’apparire. Forse per un’ansia di una generazione senza padri, impaurita, senza riferimenti. E questa depressione è in rapida ascesa tra gli adolescenti secondo recenti studi, così come i disturbi mentali che colpiscono, secondo l’OMS, 1 giovane su 7.
Ma c’è una buona notizia finale: la depressione e le altre espressioni alterate della psiche, non sono – seguendo Lacan – solo un’espressione di danno, ma anche (incredibile a dirlo) un linguaggio. Con la perdita e il funerale della speranza che mettono in scena quotidianamente, i giovani stanno dando un messaggio. La loro ostentata perdita di fiducia nel futuro parla; il rintanarsi nella tecnologia di tablet e videogiochi parla, la perdita di giudizio critico sulle loro azioni e reazioni (vedi la serie recente tv su Netflix intitolata Adolescence che ha suscitato tanto dibattito) parla eccome!
Mentre si rintanano e si spengono al mondo sociale (ma diventano geni nell’uso – purtroppo autistico – dei media e della tecnologia), ci dicono: “Dove sono i vostri ideali, le vostre speranze, la vostra presenza, che ci avrebbero fatto crescere? Buio totale. Noi volevamo un porto sicuro e voi ci avete lasciati in mano dell’unico sogno di oggi: possedere il potere della tecnologia e quindi obbligarci ad una vita solitaria, incarognita”.
L’assenza dei sogni dei genitori ha segnato a fuoco la carne e la mente della prole, un’assenza che è l’essenza dei sogni vuoti dei figli e del loro reclamare spesso con l’autolesionismo (vedi anoressia e deficit di attenzione) una vita più piena di senso. Il complesso di Achille, quell’assenza genitoriale che genera creativi disadattati, ha investito non solo i singoli ma l’intera società. Chi risusciterà un centro di gravità solido e appagante?
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