È evidente che le ragioni per le quali non sarebbe male ridare energia allo studio del latino (e del greco) sono di altra natura e sono quelle che chiamerei “interne”, in quanto non hanno a che fare con aspetti pratici o abilità concettuali (peraltro importanti e preziose), ma con la formazione della struttura profonda dell’intelligenza delle persone e della loro fisionomia cognitiva e culturale.
Partirei da una lapidaria affermazione di un grande studioso dei sistemi scolastici, Norberto Bottani, il quale in un libro che costituisce una pietra miliare della pedagogia scolastica (di ogni ordine e grado), in tempi ormai remoti, ma con uno sguardo vertiginosamente oltre le siepi ideologiche della sua epoca, affermava: “L’istruzione scolastica deve essere considerata come un’esperienza storica che rappresenta un modo particolare d’organizzazione conoscitiva sviluppatosi nelle società caratterizzate da un determinato tipo di organizzazione sociale” (Norberto Bottani, La ricreazione è finita, Il Mulino, 1986, p. 145).
Questa espressione definisce quella che possiamo considerare “l’enciclopedia”, il bagaglio non negoziabile di conoscenze che una data società ritiene di dover fornire ai suoi giovani nella prospettiva del futuro. Che è come dire: un presente che non guarda al futuro è destinato a restare sempre e costantemente obsoleto. Possono gli studi classici entrare in questa enciclopedia? Non ci sono dubbi, il nodo è come e per quanto. Quindi si tratta di capire come sarà composto il cocktail disciplinare nel quale saranno immersi i giovani di una data generazione per trarne ogni beneficio possibile e non angosce e inquietudini.
È chiaro che non si può imporre un sapore unico, ma è pur evidente che bisognerà distinguere cocktail analcolici, alcolici e superalcolici, e si tratterà comunque di dare a ogni cocktail un sapore autentico e non spacciare per menta piperita o succo d’arancia surrogati chimici che imitano i sapori naturali.
Fuor di metafora, l’importanza delle esperienze culturali scolastiche è di tale portata che un errore in questa fase ha dei riverberi terribili sull’intero sistema sociale (Enrico Gori ne ha parlato diffusamente su queste pagine), il quale sistema non sempre si accorge delle sue fragilità, perché dove manca la cultura è più facile che passino gli inganni e le illusioni. Il fatto è che, secondo i teorici della mente, le esperienze hanno un’incidenza straordinaria sulla formazione della mente; le stimolazioni sensoriali e le esperienze cognitive non solo influenzano, ma persino modellano le strutture neuronali al punto che la nostra stessa identità dipende, oltre che da specificità innate, dai contesti esperienziali in cui viviamo.
In particolare, secondo il cosiddetto darwinismo neuronale di Edelman, “particolari popolazioni di neuroni, con caratteristiche più adatte a riconoscere alcuni stimoli, codificano le esperienze consolidandole attraverso complessi meccanismi. (…) Le caratteristiche della mente non sono quindi deterministiche, ma individuali e autopoietiche” (A. Oliverio, Esplorare la mente, Cortina, 1999, p. 195). Ovvero, per riprendere ancora Bottani: “Mediante lo studio delle conoscenze scolastiche (…) si acquisiscono gli schemi mentali che permettono di organizzare le esperienze conoscitive e di ordinare la costruzione della realtà” (La ricreazione è finita, p. 143).
In sostanza la scuola è il luogo e il tempo dove il sapere diviene parte integrante, costitutiva del proprio modo di essere, al punto che le sensibilità automatiche reattive alle sollecitazioni dell’ambiente sono il risultato di un’integrazione inscindibile di sapere e di capacità di scelta, e sono generate e configurate dall’esperienza cognitiva intesa come costruzione del sé. Il fatto poi che si tratti di uno studio di lingue vive non parlate (il greco e il latino), storicamente configurate in un tempo definito (quello che i fisici chiamano intervallo T1-T2) e quindi portatrici intrinsecamente nella loro struttura di una dimensione culturale e storica antropologicamente configurata, rende l’esperienza cognitiva fortemente incisiva sulle strutture profonde emozionali, logiche e ovviamente linguistiche.
Non si tratta di un processo meccanico, ma di una graduale evoluzione organica, grazie alla quale le competenze diventano carne e sangue di chi ha incontrato quelle lingue e quelle culture, rendendo esperti gli studenti nel senso tecnico ben definito da Lerida Cisotto in un suo studio di ormai vent’anni fa: “Di fronte a un problema gli esperti impiegano buona parte del tempo nel cercare di inquadrarlo in uno schema risolutivo più generale, per poi passare, spesso per analogia, alla considerazione del caso particolare. I principianti vengono invece assorbiti subito da operazioni e aspetti esecutivi” (Lerida Cisotto, Psicopedagogia e didattica, Carocci, 2005, p. 168).
In sostanza l’incontro cognitivo con strutture linguistiche complesse si configura come una esposizione a sollecitazioni che nelle strutture neuronali si riverberano come confidenza con la “complessità” nelle sue diverse forme, tre delle quali sono definibili come qui di seguito.
1. Incontro con forme espressive diverse e lontane dal quotidiano, difficili da comprendere, ma in grado di veicolare emozioni, sentimenti e stati d’animo assolutamente coerenti con la propria contemporaneità (leggi: profondità storica).
2. Incontro con la complessità strutturale e la necessità di decodificare messaggi non solo in sequenza, ma secondo una logica di sistema (intendi: visione strategica).
3. Sfida con la propria tendenza a cedere di fronte alle situazioni problematiche e assunzione di uno stile di costanza e di resistenza cognitiva (ovvero: dimensione etica della conoscenza).
In altre parole: lo studio delle lingue classiche ha come tratto specifico quello di sembrare difficile, inutile e inattuale, eppure proprio per queste caratteristiche è dotato di una potenza formativa che non hanno altre esperienze cognitive. Questa è, in sostanza, quella che possiamo chiamare educazione alla complessità, ovvero l’abitudine a non guardare all’immediato, ma a lanciare il cuore e la mente oltre l’orizzonte limitato della propria esperienza attuale, grazie alla capacità di cogliere in un testo le sfumature più delicate, di ricostruire mentalmente contesti complessi a partire dalle parole, di vivere processi di astrazione arditi e impensabili.
Riconfigurare i significati da un testo di partenza a un testo di arrivo è un esercizio che sta a monte di ogni attività di problem solving, perché consiste nella costruzione di una tridimensionalità dello spazio interiore non solo in termini tecnici, applicativi, cerebrali e rigidamente quantitativi, ma logici, emotivi, estetici, qualitativi secondo un processo organico di costruzione della soggettività personale, naturale e fisiologico che porterà la persona a esser pronta ad affrontare ogni tipo di problema. La traduzione nella propria lingua d’oggi di un testo formulato in queste lontane lingue (greco e latino), che non sono morte se non per la mente di chi ha l’anima morta, ma sono vivissime e si agitano dentro di noi con i loro echi concettuali e immaginali, si configura come l’allenamento più efficace all’autonomia critica, alla creatività spirituale, alla libertà del pensiero.
Il nodo che si apre ora, una volta focalizzata la natura di questi studi, è capire come insegnarli, come proporli, senza che diventino un capestro o un ricatto. Una volta affrontato il problema del “Perché?” adesso dovremmo esaminare il “Per chi?” e il “Come”. Di questo parleremo nel prossimo intervento. Ora si tratta, infatti, di affrontare questioni delicate come la formazione degli insegnanti – e quindi la struttura del percorso di studi universitari per arrivare alla legittimazione scientifica nella competenza disciplinare specifica e in quella didattica – e gli strumenti mediante i quali attuare nuove norme di didattica.
(2 – continua)
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