Non so quanti lettori oggi ricordino il grande giornalista Augusto Guerriero che scriveva su Epoca, il prestigioso settimanale edito dagli anni Cinquanta del secolo scorso da Arnoldo Mondadori, e si firmava con lo pseudonimo di Ricciardetto. Ero poco più che adolescente quando lessi una sua riflessione sulla rivoluzione degli Ayatollah in Iran e sul crollo della dinastia Pahlavi.
Ricordo con assoluta nitidezza questa sua affermazione che cito a memoria “Deve esserci qualcosa di guasto nella testa di questi Pahlavi per aver costretto i Nomadi del deserto ad acquistare per le loro tende un frigorifero e un televisore. Come potevano pensare che dei nomadi potessero caricare sui cammelli degli elettrodomestici, per i quali non arrivava nelle tende la corrente elettrica, e che costituivano un peso insensato ogni volta che si spostavano nelle loro migrazioni?”.
Di due cose sono sicuro. L’espressione “qualcosa di guasto nella testa di questi Pahlavi” e il fatto che lo scià Mohammad Reza Pahlavi, per ammodernare il suo Paese, avesse deciso di importare dall’occidente gli elettrodomestici, obbligando non solo i residenti nelle città, ma anche i nomadi ad acquistarne un paio per le loro tende.
Ecco, quando penso all’insegnamento del latino mi ritornano in mente quelle riflessioni e mi domando se anche noi oggi, in applicazione e sincero ossequio alle disposizioni previste dalle emanande nuove Indicazioni 2025 per la scuola primaria e la secondaria di primo grado, rischiamo di caricare sulle spalle dei nostri ragazzi, nomadi digitali, un peso del quale non comprendono il significato.
Dall’altro mi chiedo: come possiamo dar torto a Umberto Galimberti che sostiene, oggi più che mai, la necessità di una scuola umanistica, che, nell’età delle tecnologie dirompenti, salvi l’uomo dal ridursi a semplice e grigio consumatore di strumenti tecnologici che suppliscono e indeboliscono ad un tempo la dimensione del pensiero personale?
Si tratta di un autentico dilemma, anche perché la scuola sembra già di per sé, come è ora, un peso per molti adolescenti insostenibile e talora persino insensato. E dunque la questione è: ma il latino serve a qualche cosa? Questo latino proposto, tutto sommato, in forma cortese e prudente, ha un senso?
O ha ragione chi dice: “A questo punto, se reintroduciamo il latino, facciamolo sul serio, che senso ha farlo in modo facoltativo e per giunta fino alla terza declinazione?”.
Ebbene. Non ho timore di schierarmi in modo netto e deciso per un obbligo generale dello studio di questa straordinaria disciplina. Non sarà per gli studenti un peso come i frigoriferi sui cammelli.
O, meglio, all’inizio sembrerà che sia così. Ma alla distanza gli stessi studenti che hanno sofferto la fatica ci ringrazieranno per averla vissuta e affrontata. Latino per tutti, dunque, e non solo fino alla terza declinazione, ma almeno fino alla comparazione degli aggettivi.
Detto questo, però, dobbiamo intenderci. Il latino non si insegna senza aver prima dissodato il terreno. In un prossimo intervento parleremo delle metodologie e dei rischi che questo insegnamento corre in un’epoca di diffrazione soggettiva delle metodologie. Ma qui ora affronteremo un argomento assai delicato: non si insegna latino senza prima aver rivisto l’insegnamento dell’italiano.
Faccio ancora ricorso a un discorso per immagini, per rendere più efficace la mia argomentazione. Mia nonna diceva che, quando ci si sposa (allora si usava) bisogna acquistare o farsi regalare tutte quelle cose che poi per una ragione o per l’altra non si acquisteranno più. Asciugamani e tovaglie belle, il corredo per la notte etc. etc. Poi arrivano i figli, che esigono mille altre cose, e la vita di ogni giorno con le sue esigenze e le sue necessità: a quel punto non riuscirai più a dotarti di quei beni che la rendono un po’ meno sciatta e trascurata.
Certo: altri tempi, altri costumi. Ma a scuola la sostanza del discorso tiene ancora. A scuola si devono acquisire quegli schemi mentali e quelle capacità di analisi (ognuno come può, con i suoi mezzi), quelle modalità di ragionamento che poi difficilmente si acquisiscono nel corso della vita.
Se è vero che il nostro destino si gioca da zero a tre anni, avrà pure un senso che da 3 a 19 si possa ancora intervenire per dare alle persone strumenti culturali e intellettuali validi. Da 6 a 14 la mente è ancora un vulcano di energia, un campo di una fertilità impressionante. Siamo noi adulti che proiettiamo su quell’età le nostre visioni, le nostre ideologie, le nostre paure.
L’idea che la scuola non debba essere faticosa, che debba esser divertente, che debba essere piacevole è una delle sciocchezze immani che hanno aleggiato nelle menti dei pedagogisti della seconda metà del Novecento.
Nil sine magno Vita labore dedit mortalibus, dice Orazio in una delle sue incomparabili Satire (1.9.59-60). La scuola non deve essere né piacevole, né divertente. Deve esser interessante e soprattutto deve esser l’antidoto della banalità.
L’illusione di arricchirsi facilmente senza fare fatica è una delle idiozie che hanno abitato l’immaginario collettivo del nostro tempo. Nella società della conoscenza non valgono astuzia e furbizia, ma competenze e cultura. Il latino e i suoi esercizi sono cultura? Dirò di più: sono il fondamento di una cultura libera e in grado di irridere alle illusioni di una tecnologia che si presenta con il volto amico, ma è pensata e strutturata per l’espianto delle capacità di pensiero.
E dunque spazziamo via i residui di un’erudizione formalistica e arida, quale è diventata ormai sempre più spesso la prassi dell’insegnamento dell’italiano, e riprendiamo due linee che sembrano oggi dimenticate: la lettura di testi che lasciano una traccia nell’interiorità delle persone e l’analisi grammaticale e logica del discorso.
Nei giorni scorsi ho constatato di persona come il concorrente di un noto quiz televisivo (considerato un campione…) non sapesse collegare la parola “parti” alla parola “discorso”. Anzi ipotizzava una espressione del tipo “discorso delle parti” e non sapeva che esistono le “parti del discorso”: esempio evidente di un giovane sui trent’anni che non aveva mai sentito a scuola quella espressione.
Va da sé che ancora una volta è la preparazione metodologico-didattica dei nostri insegnanti il cuore del problema. Se ancora molti di loro scambiano la grammatica descrittiva con la normativa, non sanno nulla di linguistica storica, e vivono la disciplina che dovrebbe essere il loro pane come un’inutile e noiosa prassi nozionistica, significa che il difetto sta nel manico.
L’insegnante di italiano (e latino) che ha questa idea della grammatica è assimilabile a un cuoco stellato che non sappia cuocere due uova al tegamino. La grammatica, principessa delle discipline un tempo, deve essere il metalinguaggio mediante il quale ci si misura con la propria lingua. Lo strumento che descrive quello strano e prodigioso fenomeno grazie al quale non solo possiamo interagire con gli altri, ma soprattutto sappiamo, ripiegandoci su noi stessi, comunicare con il nostro cuore e la nostra anima.
Ecco, dunque, che letture cariche di valore emotivo, riflessione sulla lingua e capacità di espressione corretta formano un inscindibile intreccio di abilità concettuali, che sono il fondamento della più importate delle competenze, ossia la capacità di pensare e di dare senso alla propria libertà.
Concludo quindi dicendo che riprendere lo studio del latino significa ricondurre i nostri ragazzi all’autonomia di pensiero. Non sono tanto le poche frasette di un latinuccio stentato (ma chi dice poi che sia per tutti così?), bensì l’insieme delle pratiche che allo studio del latino fanno da contorno e che un’infatuazione fanciullesca per una scuola senza qualità ha eliminato dall’orizzonte educativo degli ultimi quarant’anni.
E quindi latino per tutti, perché di tutti è il bisogno di autonomia culturale, necessaria a tutti è la competenza di pensiero e tutti hanno diritto a una libertà che si fonda sulla sensibilità critica sia del giudizio, sia del gusto personale.
(3 – continua)
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