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Home » Libertà di educazione » SCUOLA/ Massarenti: più laboratori di pensiero critico per salvare i figli dell’AI

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SCUOLA/ Massarenti: più laboratori di pensiero critico per salvare i figli dell’AI

Dall’IA alla difficoltà ad affrontare l'Invalsi, da Armando Massarenti una proposta per allontanare gli studenti dalla stupidità a cui li relegano i social

Int. Armando Massarenti
Pubblicato 2 Luglio 2025
(Ansa)

(Ansa)

Dall’odio e dalla stupidità dei social media, che non risparmiano né docenti né discenti, all’intelligenza artificiale usata con poca intelligenza; dal QI in discesa ai test Invalsi; dagli eccessi del politicamente corretto alle reazioni uguali e contrarie, il pensiero critico e la buona educazione sembrano in crisi.


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Ma non tutto è perduto. Lo spiega Armando Massarenti, filosofo della scienza, saggista e autore del libro provocatorio ma costruttivo, Come siamo diventati stupidi. Una immodesta proposta per tornare intelligenti (Guerini, 2024).

In questa conversazione, gli abbiamo chiesto qualche spunto per ripensare la scuola. E per non smettere mai di pensare.


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I test Invalsi e l’analfabetismo funzionale ci parlano di studenti che faticano a comprendere i testi e a far di conto. È un segno di stupidità diffusa?

Nel libro non uso il termine “analfabetismo funzionale”, ma parlo di qualcosa di ancora più profondo: la difficoltà di distinguere tra opinione e conoscenza, tra informazione e pregiudizio. È questo il cuore della stupidità contemporanea: non la mancanza di capacità cognitive, ma la mancanza di strumenti critici per usarle. Ecco perché serve una scuola che non si limiti a trasmettere contenuti, ma che educhi a pensarli.

La proposta? 


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Introdurre laboratori di pensiero critico, in cui si impari a ragionare, argomentare, dubitare. E anche, o soprattutto, a sbagliare con intelligenza.

Lei parla di “pappagalli stocastici”, riferendosi all’intelligenza artificiale. Ma non rischiamo di formare anche degli studenti-pappagallo?

Infatti. Se l’IA imita senza capire, molti studenti fanno lo stesso: ripetono formule senza comprenderle. Colpa di una scuola che troppo spesso premia la memorizzazione invece del ragionamento. La mia proposta è semplice: insegnare meno, capire di più. Valutare i processi, non solo i risultati. E coltivare il dubbio come virtù.

Internet ci ha resi più informati o più stupidi?

Entrambe le cose. Abbiamo più accesso ai dati, ma meno tempo per riflettere. I social premiano la reazione istintiva, non il pensiero lento. È per questo che servirebbe un’educazione alla lentezza: saper leggere un articolo, verificare una fonte, analizzare un’informazione. Io proporrei un’ora settimanale di educazione all’informazione: imparare a usare internet senza esserne usati. Troppe informazioni o troppi dati non si trasformano automaticamente in conoscenza se non sono elaborate dal pensiero e dal giudizio. Un pensiero che oggi può beneficiare degli strumenti messi a disposizione da un’immensa letteratura che io cerco di mettere a disposizione di tutti nel mio libro.

 Lei scrive anche della polarizzazione culturale. Come riguarda i giovani e la scuola?

La polarizzazione nasce da un bisogno di appartenenza che cancella il pensiero. Si aderisce a una tribù e si smette di discutere. Si odia e ci si instupidisce. Ma pensare criticamente significa saper cambiare idea. A scuola insegniamo troppo poco il disaccordo. Il confronto. Il dialogo. Eppure sono queste le competenze fondamentali del cittadino democratico. Serve un’educazione al disaccordo ragionato: capire prima di giudicare, rispondere invece di reagire.

Il QI è ancora una misura valida dell’intelligenza?

Misura qualcosa di importante, ma non tutto. Il QI valuta abilità astratte, logiche, ma non la creatività, l’empatia, la capacità di lavorare con gli altri. Nella scuola e nella vita contano anche le intelligenze “minori”, spesso trascurate: emotiva, sociale, argomentativa. Soprattutto però si è scoperto che il QI non misura la razionalità. Ecco perché persone intelligenti fanno e pensano spesso cose stupide.

Ancora: cosa propone?

La mia proposta è duplice: non abolire i test, ma affiancarli a strumenti che misurino competenze più ampie, come la capacità di porre buone domande o di ragionare su problemi complessi. Quelle che definiscono il pensiero critico. Il libro propone ed estende i venti concetti chiave proposti da James Flynn che possono rendere una mente feconda e padrona del nostro tempo.

Cos’è la “stupidità accademica” di cui parla?

È quella che nasce dall’eccesso di conformismo, o di politicamente corretto, non dalla mancanza di studio. Quando ci si adegua alle mode culturali si scrivono articoli oscuri per dire cose ovvie, o si rinuncia al dubbio per paura di essere “sbagliati”. La scuola può cadere nella stessa trappola: quando trasmette verità preconfezionate, quando si chiude nella ripetizione. Per evitarlo, servono docenti coraggiosi, capaci di mettere in discussione anche i libri di testo. E studenti liberi di dire: “Non ho capito” o “Non sono d’accordo”.

Lei cita spesso John Stuart Mill. Perché è ancora attuale?

Mill ci ha insegnato che anche le idee giuste possono morire, se non vengono difese con buone ragioni. Una verità non argomentata è una verità spenta, fragile, pronta a essere rovesciata. Non riusciamo più a farla brillare tra le mille sciocchezze che ci tocca sorbire ogni giorno. A scuola dovremmo allenare gli studenti a difendere le proprie idee con rispetto e rigore. È il cuore del pensiero critico: non basta avere ragione, bisogna anche saperlo dimostrare. E saper ascoltare le ragioni dell’altro. Anche se le sue idee ci sembrano strane.

Il suo libro si chiude con un decalogo del libero pensatore. Quali sono le virtù da coltivare?

Prima fra tutte, il dubbio. Poi il coraggio, la curiosità, l’onestà intellettuale. Ma senza ironia, tutto questo può sembrare pesante. Savinio ci ricordava che  la stupidità ha il suo fascino ipnotico, da non sottovalutare neppure se si è intelligenti. Il film Inside Out 2 mostra che tra le isole del carattere che formano la personalità della protagonista, l’isola della stupidera è fondamentale come le altre. La stupidità maggiore in realtà è quella che viene dalla saccenza, da una cultura e da un’educazione mal digerite e poco armoniche.

Come ci si difende?

L’ironia è una forma di resistenza. È la capacità di ridere di sé, di non prendersi troppo sul serio, di vedere il mondo in prospettiva. Io proporrei di introdurre all’università una cattedra sulla stupidità e a scuola una materia nuova: autoironia applicata. Non salverà il mondo, ma ci renderà più liberi. Per questo il libro ha uno stile insieme serio e ironico, ed è costellato di citazioni sagaci. Del tragicomico decalogo liberale, scritto da Bertrand Russell, ricordo due precetti seri e uno ironico: “Non provare invidia per la felicità di coloro che vivono di illusioni, perché solo uno sciocco può pensare che in ciò consista la felicità”. L’altro serio: “Trova più gusto in un dissenso intelligente che in un consenso passivo, perché, se apprezzi l’intelligenza come dovresti, nel primo caso vi è una più profonda consonanza con le tue posizioni che non nel secondo”.

E quello ironico?

È il mio preferito: “Non cercare di scoraggiare la riflessione perché è sicuro che ci riuscirai”. Nel mondo degli odiatori da social media è forse quella che merita la maggiore attualizzazione, insieme a Leo Longanesi, che scriveva: “Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica”. Ma attenzione! Nel libro dimostro, dati alla mano, ma sempre con un po’ di distacco ironico, che anche l’intelligenza è, o può tornare a essere, una forza storica.

(Tiziana Pedrizzi)

 

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