Subito dopo la fine delle lezioni mi è capitato di trascorrere una piacevole serata invitato a cena da alcuni miei alunni. Una quarta liceo, bella gente, tutti promossi e con buone medie, simpatici da morire, anche i più secchioni con i loro tic strabilianti. Tra battute, progetti per l’estate ancora tutta da vivere e ricordi dell’anno scolastico trascorso più o meno divertenti, la serata è andata alla grande fino al momento in cui, proprio per bocca di uno dei più bravi, si è materializzata la domanda fatale che aleggiava su di noi sin dall’inizio del nostro incontrarci: “Prof, ma noi ritorneremo a fare gli esami come prima del virus?”.
Che è poi come dire: “ma proprio noi saremo gli sciagurati che dovranno di nuovo affrontare la prova più dura? Ce la faremo, prof?”. Per qualche lungo minuto i volti si sono incupiti e gli sguardi si sono fatti seri, quasi impauriti, l’allegra baldoria precedente è scomparsa, smorzata dalla coscienza delle proprie fragilità umane, delle lacune scolastiche in parte aggravate da mesi di Dad e difficilmente recuperabili nell’ultimo anno, dal timore – discutibile quanto si vuole, ma reale – di poter essere trattati ingiustamente, svantaggiati rispetto ai loro compagni che hanno superato in questi ultimi due anni scolastici esami molto semplificati rispetto al passato.
Ma l’ansia più grande che si avverte negli studenti, soprattutto nei più piccoli, viene dalla solitudine di fronte alla sfida del futuro, per la quale ci si sente impreparati. Perché la concezione della vita più diffusa tra i ragazzi è che l’esistenza consiste nel preoccuparsi per qualcosa che si dovrà fare in futuro e che darà, forse, un senso alla loro presenza nel mondo. Hanno talmente interiorizzata questa visione che misurano continuamente il loro sentirsi adeguati e pronti a quel futuro, ci pensano anche quando si divertono – ed è per questo che a volte tendono agli eccessi – e si sentono sotto esame in ogni cosa che fanno anche quando non ne avrebbero nessun motivo.
Sembra paradossale affermare questo se, come scrive giustamente Ernesto Galli della Loggia (“Non sappiamo più educare i giovani, solo compiacerli”, Corriere della Sera del 14 luglio 2021), mai come oggi i giovani sono oggetto di una stucchevole adulazione da parte degli adulti che hanno rinunciato ad educarli seriamente. Vero, ma i giovani avvertono anche la menzogna e l’inganno che si nasconde dietro questa falsa esaltazione della loro condizione, perché non sono ciechi (si pensi all’ambiguo atteggiamento del mondo adulto rispetto alle riaperture post Covid) e si attendono, con dissimulato terrore, di essere improvvisamente posti di fronte a prove ignote alle quali nessuno li ha preparati e accompagnati veramente.
Insomma, i giovani sanno che c’è un prezzo da pagare per le lusinghe degli adulti e le agevolazioni, vere o presunte, di cui godono; si rendono conto, pur confusamente, che prima o poi il conto arriverà per ognuno. E sono consapevoli che spesso non c’è nessuna gratuità nell’atteggiamento adulto, ma solo un calcolo ricattatorio: vi lasciamo liberi quel tanto per fare quello che diciamo noi, per rispondere alle nostre aspettative sociali, per “riuscire” come intendiamo noi.
Già, ma qual è il modello di “riuscita” umana che consegniamo ai giovani? Dov’è il “retaggio” – per riprendere la bella immagine di Galli della Loggia nell’articolo citato – che tramandiamo loro? Quale proposta di vita li chiamiamo a verificare? Basta loro quello che sembra sufficiente per gli adulti?
Nel corso di un altro bel dialogo con alcuni miei studenti incontrati per caso in un negozio pochi giorni dopo la vittoria della nazionale agli Europei, siccome c’era ancora una bell’aria di festa con tripudio di bandiere, mi è venuto di chiedergli perché, secondo loro, tutta Italia era contenta per questo avvenimento sportivo. Al netto di qualche risposta un po’ retorica e qualche battuta alquanto sciovinista ma simpatica, andando sul serio non c’è voluto molto per condividere un giudizio: siamo tutti felici perché avevamo proprio bisogno tutti di un momento di pace, di sentirci vivi e uniti, amici con il mondo, soprattutto dopo la tremenda vicenda della pandemia.
Niente di sensazionale nel giudizio ma, come ho fatto notare loro, questo vuol dire che tutti desiderano le stesse cose per la loro vita e la nazionale è stata lo spunto per riscoprirlo ancora una volta e imparare qualcosa su di sé. Siccome mi piace affondare nella provocazione, ho chiesto loro se adesso dobbiamo aspettarci un’altra vittoria – un altro miracolo – per provare la stessa corrispondenza o se invece non è possibile fare quella scoperta tutti i giorni, perfino a scuola e con le cose che non ci piacciono o che ci fanno male.
La maggior parte è rimasta in silenzio, altri hanno decisamente risposto di no. Uno solo ha detto: “forse sì prof, ma ci vorrebbe sempre qualcuno che ci fa domande come quella di prima sulla nazionale”. Il ragazzo ha colto semplicemente il segreto di una relazione educativa, nella quale non c’è bisogno né di psicologismi né di sentimentalismi di facciata, ma di capacità di e-ducere, di chiamar fuori, di destare l’io e fargli prendere consapevolezza di sé e delle sue esigenze attraverso la pratica rigorosa del giudizio sulla realtà data, qualunque si la forma con cui si presenta ai nostri occhi.
Grazie a don Giussani, ho scoperto tanti anni fa una semplice canzone che lui aveva recuperato dalla tradizione dello scoutismo. È intitolata “La traccia”, mi piace molto e la canticchio spesso, soprattutto in qualche momento difficile per far memoria del compito, come una preghiera. Dice che la vita è fatta sia di cammino, perché si tratta di scoprire e seguire la traccia che Qualcuno ha già posto nella realtà per ritornare a lui, sia di attesa desiderosa dell’arrivo. Se vogliamo che per i nostri ragazzi la paura del futuro si trasformi in attesa costruttrice, forse dobbiamo aiutarli a riconoscere e andar dietro a quella traccia nascosta della quale il nostro cuore è il detector, sostenendoli nella pazienza dell’attesa.
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