La scuola di oggi con i suoi problemi spesso occupa le pagine dei giornali e i dibattiti come se fosse un “grande malato”, eppure…
Ieri, al Teatro Villoresi di Monza, cinquecento studenti delle medie superiori, accompagnati dai loro professori, si sono trovati per dialogare sul tema “Quale scuola per i ragazzi di oggi” con il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, la dirigente scolastica dell’Istituto “Enzo Ferrari” Valentina Soncini e il teologo e insegnante Julián Carrón, moderati da Michele Faldi (Università Cattolica di Milano).
L’incontro – promosso dal decanato di Monza – è stato preparato da settimane di lavoro, nelle quali gli studenti, con i loro insegnanti, hanno prodotto significative domande alcune delle quali sono state scelte per essere sottoposte dagli stessi studenti ai relatori.
Ha iniziato subito Chiara, Collegio della Guastalla: “Chi sono io a scuola? Sono un complesso di domande, problemi, criteri, pensieri esigenti e calamitici. Varcando il cancello d’entrata della scuola porto dentro tutto il mio gomitolo di questioni e, mentre il professore parla, spesso qualche parte del filo aggrovigliato viene punzecchiata. Solo un esempio: mi è capitato un giorno di arrivare a lezione con un enorme interrogativo sull’amore.
Il professore ha iniziato a leggere un brano del Simposio di Platone e mi si è accesa una luce: in quelle parole avevo trovato un’indicazione per un’ipotesi positiva di risposta al mio problema. Come aiutarsi affinché la scuola possa essere sempre più un luogo all’altezza delle nostre domande?”
“Bellissima domanda, grazie – ha iniziato Carrón –. Amare le domande, vivere adesso le domande è importante e non è scontato: il rapper Ernia sostiene che ‘il nuovo sport è non farsi domande’. Mentre la domanda è la grande occasione per intercettare la risposta.
‘Niente è più incredibile di una risposta ad una domanda che non si pone’, diceva Niebuhr. È bello l’esempio che hai fatto, perché un testo parla solo a chi ha domande, così il testo può proporre un’ipotesi di risposta”.
Carrón ha proseguito ricordando un’espressione di un suo professore: “‘Un cattivo professore può essere sostituito da un bravo studente, ma un cattivo studente non può essere sostituito da nessun professore’, cioè nessuno può sostituirti”, e ha concluso strappando l’applauso della platea: “Venite con le vostre domande a scuola e sfidate i professori!”.
È stata poi la volta della prof. Sara De Sanctis, dirigente del “Dehon”. “Nel progettare la scuola del presente e del futuro, quali caratteristiche, bisogni e aspettative delle studentesse e degli studenti dovremmo tenere in considerazione, posto che il mondo giovanile è in continua evoluzione, influenzato da molteplici stimoli che spesso gli adulti faticano a riconoscere e comprendere?”.
“Progettare, operare… – ha risposto la docente Soncini – siamo molto affaccendati per migliorare sempre l’offerta formativa. Ma quale scuola, per quali ragazzi? In voi si vede una fatica ad essere se stessi. A volte è come se non aveste un punto di sintesi e così le cose vi invadono senza farvi crescere. La scuola deve tener conto di questa fatica del vivere e costruire percorsi per fare sintesi nuove. La scuola deve essere un laboratorio di rapporti intergenerazionali: una rete di relazioni significative”.
E il rapporto col mondo del lavoro? È un altro tema che sta molto a cuore ai ragazzi, come ha testimoniato la domanda di uno studente del “Ferrari” al ministro Valditara: “Molti studenti lamentano che il sistema scolastico è spesso troppo teorico e poco pratico, troppo staccato dalla vita vera… tanti ragazzi, infatti, lasciano la scuola, altri, appena finita, vanno a lavorare all’estero. Si sta lavorando perché la scuola insegni a vivere e anche per rendere l’istruzione più orientata al mondo del lavoro?”
“È un’attenzione che abbiamo – ha replicato Valditara –, perché la scuola deve avere due finalità: formare alla libertà, cioè aiutare a crescere come cittadini maturi e responsabili; e dare concretezze e strumenti per inserirsi nel mondo del lavoro”.
I ragazzi incalzavano. Come Alice del “Frisi”: “Noi studenti ci sentiamo parte di una scuola che spesso, per i ritmi che ha, è un continuo saltare da una materia all’altra, con tempi stretti, dove la performance, tante volte, diventa l’unico metro per giudicare noi e i compagni.
Desideriamo una scuola dove si possa imparare qualcosa che rimanga per sempre nella mente, legata alla vita, a differenza delle banali nozioni che una settimana dopo la verifica o interrogazione vengono dimenticate. Noi vorremmo una scuola in cui sempre più il lavoro di noi studenti, nel cammino di conoscenza, sia aiutato da professori che indichino la strada più come maestri che come funzionari. Come partecipare alla crescita di una scuola così? E poi, cosa si intende per una educazione che sia buona?”.
Alla domanda ha risposto Carrón. “Come in matematica ci hanno insegnato un metodo che ci consenta di acquisire certezza, così è per la vita: possiamo imparare da quello che viviamo. Che cosa desideriamo che rimanga? Un significato. Allora chiediamo di imparare sempre il metodo per non ‘perdere la vita vivendo’, come ci richiamava Eliot”.
A scuola, però, ci sono anche i genitori. Un rapporto non sempre facile, come ha raccontato uno studente dello “Zucchi”: “La nostra domanda riguarda il rapporto tra i genitori e noi ragazzi; in particolare la presenza genitoriale in ambiente scolastico.
Riteniamo che i genitori siano eccessivamente coinvolti in ambito decisionale all’interno della scuola. Pensiamo inoltre che ci sia una forma di pressione e di controllo genitoriale sull’alunno, che a lungo andare rischia di deresponsabilizzarci. Anche la presenza del genitore nel rapporto tra studente e docente può talvolta ridurre l’autorità di quest’ultimo. Come potrebbe essere maggiore il protagonismo degli studenti all’interno della scuola? Il coinvolgimento dei genitori potrebbe invece essere ridimensionato?”.
“Certo – ha risposto la prof. Soncini – i genitori sono troppo presenti e, a volte, troppo assenti. È il tema dell’autonomia personale: siete nel tempo in cui cercate di diventare adulti oscillando tra il desiderio di indipendenza e la paura di sbagliare. Ma la scuola non può fare a meno dei genitori: ‘per far crescere un ragazzo ci vuole un villaggio’ si dice in Africa. Occorre che ognuno giochi bene il proprio ruolo, facendo dei passi avanti di responsabilità, da parte dei ragazzi, e qualche passo indietro da parte dei genitori; usando gli spazi di dialogo negli ambiti che sono già previsti nell’ordinamento scolastico”.
La questione si è allargata, arrivando a toccare un tema caldo: “I miei genitori hanno scelto per la mia educazione una scuola paritaria di Monza – spiega Elena, studentessa del “Bianconi” –. Molti dei miei coetanei ritengono che tale scelta rappresenti un privilegio esclusivo per le famiglie benestanti. Inoltre, spesso non si è in grado di comprendere la differenza tra scuola paritaria e scuola privata.
Le scuole paritarie, grazie a una legge del 2000, sono equiparate alle scuole statali. In che modo lo Stato può supportare le famiglie nel compiere una scelta educativa libera? Come può una scuola paritaria essere percepita come un’opzione elitaria quando dovrebbe poter essere un bene per tutti?”. Una domanda diretta al ministro.
“Per rispondere – ha detto Valditara – occorre capire qual è il significato della nostra scuola: è una scuola costituzionale. Mi riferisco al principio personalistico che innerva la nostra Costituzione: metter al centro la persona.
Per questo occorre che le famiglie siano messe nella possibilità di fare delle scelte educative coerenti con i loro ideali di riferimento. Per far questo ci sono due meccanismi: o il buono scuola o la possibilità delle detrazioni fiscali di una parte delle spese sostenute per l’istruzione.
Dobbiamo percorrere questa strada. Se vogliamo far crescere le persone in modo libero dobbiamo far sì che la scuola paritaria possa essere considerata un modello di stimolo per la scuola statale: il pluralismo è il sale della democrazia”.
Dopo più di un’ora e mezza l’attenzione dei ragazzi non è venuta assolutamente meno e, per concludere, Faldi ha posto una domanda personale ai tre relatori: “Quali maestri hanno segnato la vostra vita, e perché?”.
“Innanzitutto, quello che mi ha accompagnato nella mia ricerca, comunicandomi la sua passione per lo studio e risvegliando la mia – ha risposto Carrón –. La seconda persona è quella che mi ha invitato a diventare protagonista del vivere: che tutto venisse confrontato con le esigenze che avevo dentro.
Sono le persone che mi hanno generato, che ho riconosciuto – perché queste persone non si scelgono, si riconoscono –, intercettati per la loro attrattiva. State attenti alle persone che avete davanti, perché noi abbiamo il ‘detector’ per trovare i maestri”.
“Chi mi è stato vicino? – ha chiosato la Soncini –. Grandi autori come Platone, Kant, Nietzsche, ma soprattutto Sant’Agostino per la sua profondità di domanda. E poi i genitori, diversi professori. Tutte persone che mi hanno detto che quello che volevo era importante”. La docente ha chiuso con il ricordo commosso di un collega scomparso lo scorso anno.
Anche per il ministro i maestri sono stati innanzitutto “i genitori, maestri e professori; uno in particolare che ci insegnò il dialogo, la riflessione e la capacità di giudicare. Soprattutto i maestri che mi hanno ispirato nell’azione di tutti i giorni sono i padri costituenti”.
Monsignor Mosconi, l’arciprete di Monza, nel suo saluto iniziale si era augurato che andassimo a casa con qualche domanda in più, ed è stato quello che è successo. Lo si è visto nei capannelli con gli studenti a fine incontro. “Vi auguro – ha sottolineato Faldi in chiusura – di continuare il metodo di quest’oggi: far emergere le domande e condividerle con i vostri professori”.
Si parla tanto di un “grande malato”, ma oggi si è vista una scuola viva, che vuole esserci, raccontarsi, provare a cambiare. È un bel segno di speranza.
Vengono in mente le parole del filosofo Byung-Chul Han nel suo ultimo libro dedicato alla speranza: “La speranza, anche su un piano linguistico, è la controfigura dell’angoscia. Nel dizionario etimologico di Friedrich Kluge, alla voce ‘sperare’ leggiamo: ‘si cerca, sporgendosi in avanti, di vedere più lontano, con più accuratezza’. Pertanto, ‘speranza’ significa: ‘guardare lontano, verso il futuro’. Essa apre lo sguardo al venturo [Kommende]. Il verbo ‘verhoffen’ mantiene ancora il significato originario di ‘hoffen’.
Nel gergo dei cacciatori ‘verhoffen’ significa: ‘fermarsi, in silenzio, per tendere l’orecchio, per ascoltare attentamente, per fiutare l’aria’. […] Chi spera scruta anche l’ambiente circostante, il che significa che cerca di conquistare una direzione’ (Byung-Chul Han, Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, Einaudi 2025). Cerchiamo, con la certezza di poter trovare risposta.
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