La scelta di consentire ad alcune studentesse musulmane di indossare il niqab, compiuta dall’Istituto “Sandro Pertini” di Monfalcone, pone molti interrogativi e dubbi. Da sociologo mi sembra valga la pena di ricordare quali siano gli scopi in base ai quali sono nate, in età moderna, le scuole. Un insigne scienziato sociale americano, Steven Brint, scrive: “Le scuole sono sorte per molte ragioni diverse, ma fra queste ultime primeggiano la trasmissione della cultura di un gruppo, il consolidamento delle fedeltà politiche e la preparazione dei giovani per la vita pubblica o un mestiere”.
La franchezza del linguaggio può infastidire alcuni, ma ciò non inficia minimamente la valenza euristica di tali affermazioni. Le scuole non nascono a caso o per una vocazione puramente intellettuale, ma per rispondere a esigenze storiche, politiche e civiche. Esse sono certamente luoghi dove si persegue la conoscenza astratta, senza fini strumentali, che nasce dal modello aristocratico delle accademie dell’antica Grecia, ma – come sostiene Alfred N. Whitehead – “nessun corso di studi può aspirare a una posizione di completezza ideale. L’insistenza della cultura di tipo platonico su di una disinteressata valutazione intellettuale è un errore psicologico. L’azione e il nostro impegno nel corso degli eventi, in mezzo all’inevitabile catena di cause ed effetti, sono fondamentali”.
Inoltre, in quanto istituzioni storiche, esse sono organizzazioni sorrette da finanziamenti pubblici e privati cui corrispondono determinate funzionalità sociali, in primo luogo quella dell’alfabetizzazione, e civiche, come quelle ottocentesche rivolte a promuovere l’identificazione con lo Stato anche da parte delle popolazioni periferiche. La persistenza di queste finalità, ancorché “sotterrata” sotto strati di pratiche scolastiche apparentemente neutre, in realtà si mantiene sempre e, se si vuol comprendere il funzionamento della scuola, essa dovrebbe essere tenuta costantemente presente, procedendo, come suggeriva Machiavelli, alla riduzione di ciascun fenomeno storico ai principi originari.
In questa prospettiva, i sociologi spiegano il senso dei processi di socializzazione, che costituiscono un’attività finalizzata a plasmare i comportamenti e i valori dei suoi membri. Scrive Brint: “Senza una prolungata esposizione all’ambiente socializzante della scuola, la maggior parte dei bambini non sarebbe sufficientemente preparata per la vita adulta”. Sotto certi aspetti, la socializzazione ha un’importanza maggiore dell’apprendimento di nozioni, che è sottoposto alla fallacia della memoria, mentre l’acquisizione di un sistema di comportamenti e valori persiste nell’arco della vita degli individui. Ovviamente queste considerazioni non negano, ma anzi considerano favorevolmente le condizioni di integrazione di colui che Simmel definiva come “straniero”, il quale, diventato membro del gruppo, “abitando” cioè un “dentro”, continua tuttavia ad appartenere anche a un “fuori”, contribuendo a innovare la comunità ospite. Ma senza un passo “dentro”, la condizione del “fuori” non può esercitare la funzione innovativa di cui parla Simmel. In altri termini, senza un’adesione preliminare ai valori e alle leggi della comunità ospitante, non è possibile alcun contributo creativo. In Gran Bretagna, dove si è dato largo spazio al riconoscimento della diversità culturale e dei relativi costumi, accettando anche che alcune comunità amministrassero al loro interno la giustizia (per esempio sui divorzi) secondo le norme dei Paesi natali, si sono rafforzati i legami di integrismo ideologico e fanatico. Sono affiorate, così, delle faglie interculturali, diversamente dall’auspicata integrazione.
Ma cosa accade nella scuola di Monfalcone? In sostanza, al suo interno, si consente alle alunne di non rispettare la legge del nostro Paese. Infatti, seppur con lo stratagemma di una identificazione delle alunne prima delle lezioni, esse restano a scuola con il volto totalmente coperto. L’espediente, poi, rivela esso stesso degli aspetti critici sul piano della legittimità procedurale. Chi è che procede all’identificazione delle ragazze? Dovrebbero essere i docenti (o il dirigente) a svolgere una tale funzione che, previa l’identificazione, autorizza l’ingresso a scuola delle ragazze. Un ruolo cioè di pubblico ufficiale, che prescinde dall’appartenenza di genere dei docenti in questione.
L’accertamento dell’identità dei candidati all’esame di Stato, ad esempio, avviene ad opera della Commissione, composta da donne e uomini. Credo, tuttavia, che non sussistano dubbi circa il fatto che le famiglie musulmane non accettino che a svolgere tale ruolo sia un uomo. Così, anche in questo caso la visione religiosa si trova a confliggere con il sistema normativo italiano, che non fa distinzioni di sesso rispetto a un pubblico ufficiale, anche perché la visione di un volto femminile da parte di un uomo non rappresenta certamente un oltraggio né alla legge né alla morale. Il tutto avviene all’insegna di comportamenti che configurano una discriminazione positiva, cioè un trattamento particolare accordato a ragazze che indossano il niqab. Certamente le intenzioni della preside e della scuola sono nobili, ma pur sempre di discriminazione si tratta.
C’è poi una questione tecnica, perché il niqab, unitamente all’abito tradizionale che avvolge l’intero corpo femminile, costituisce un indubbio impaccio per lo svolgimento di determinate attività, come quelle di educazione motoria, che nei nostri curricoli sono obbligatorie. È certo che esso riduca il campo visivo e la percezione dell’ambiente, ostacola il libero movimento del corpo e può causare un innaturale surriscaldamento con una maggiore e antigienica sudorazione. Va da sé, inoltre, che tutto ciò impatta negativamente sui regolamenti scolastici per la sicurezza e sulle norme generali di prevenzione dei pericoli nell’espletamento di attività ginniche.
È noto che in certi casi le scuole sono giunte a proporre anche abbigliamenti che, con alcuni adattamenti, consentissero lo svolgimento di quelle attività, ma suppongo che questo sia stato possibile solo con quella parte di famiglie aderenti a un Islam moderato. A questo riguardo valgono le considerazioni svolte da Salvatore Abbruzzese su queste pagine, che cioè uno degli effetti più nefasti che la scuola di Monfalcone ha provocato è quello relativo all’Islam moderato, di coloro che, pur aderendo convintamente alla propria religione, non giudicano che la loro fede sia compromessa dal volto scoperto delle loro figlie. Infatti la scuola di Monfalcone, riconoscendo il presupposto ideologico intransigente di chi non accetta compromessi, ha sostanzialmente posto in subordine gli atteggiamenti moderati di altre famiglie islamiche.
La scuola ha perseguito il mito assoluto dell’inclusione, trascurando o sottovalutando la posizione rocciosa e identitaria di chi vuole essere accolto solo alle proprie condizioni. Una inclusività talmente dilatata da ignorare la resistenza ideologica di chi non accetta di integrare i propri costumi con quelli della società ospite, ma rivendica il diritto assoluto di essere sé stesso pur in un contesto esterno alla sua cultura originaria. Due “assoluti”, quello dell’inclusione e quello dell’identità, che nuocciono a qualsiasi dialogo. Si è così disconosciuto il fatto che nessuno può essere integrato contro la sua stessa volontà.
La scuola, infine, rivelando una tale ostinazione al punto da voler includere chi non è disposto ad alcun cambiamento, ha svalutato la propria identità e deprezzato il bene stesso della cultura, se si accetta ogni sorta di compromesso per poterla dispensare. È il valore stesso dell’istituzione-scuola che, se riconosciuto, dovrebbe attrarre e produrre cambiamenti in chi lo percepisce. C’è da dubitare che un tale valore sia apprezzato da chi subordina la partecipazione alla vita scolastica delle figlie a un convincimento fideistico.
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