“Il sistema non è più sostenibile” è una frase che ricorre spesso negli articoli più in voga sul tema del lavoro nella ristorazione. Martedì 10 gennaio, la notizia della chiusura del celeberrimo tre stelle Michelin “Noma” ha concentrato tutte le maggiori ansie legate a questo tema: staff sbilanciato sugli stagisti, lavoro sottopagato, turni estenuanti, nessuna luce in fondo al tunnel. Con una lista d’attesa quadrimestrale, lo chef René Redzepi ha chiuso bottega.
“Il settore va completamente ripensato, così è troppo difficile, dobbiamo lavorare in un modo diverso” ha detto. È davvero così, ma come si fa? La risposta del Noma sembra adagiarsi su una soluzione che ristorazione non è: un laboratorio che svilupperà piatti per e-commerce, con la sala aperta solo per eventi speciali. Un’evoluzione ingegnosa, ma non molto allettante.
La verità è che l’autentica esperienza della tavola è un valore umano che non può essere perduto.
E quando non è la cultura del cibo a essere guasta, altrettanto non si può dire dell’organizzazione del lavoro necessaria perché questa prosperi. Dunque, è dall’uomo che lavora che occorre partire, dal professionista. È necessario un legame solido tra chi cerca figure di cucina, di sala e di accoglienza e chi le forma, ma questo legame, almeno in Italia, a oggi non esiste.
Eppure, un modello di scuola con le risorse occorrenti per colmare questo scarto c’è. In un ecosistema che chiede sempre più duttilità, esistono realtà che formano ragazze e ragazzi che non necessitano più di un percorso di stage o di un dispendioso inserimento, ma hanno già costruito la loro abilità, al punto da diventare leve di sviluppo per le imprese con cui vorranno collaborare.
Non meri esecutori, bensì figure complete, capaci di fine tecnica esecutiva e fondato pensiero critico, entrambi esercitati nel confronto sociale con i loro compagni.
Quando uno studente dell’Istituto alberghiero “don Carlo Gnocchi”, partito magari in salita cinque anni prima, arriva a stringere il diploma di maturità, la scuola ha già provveduto a consegnargli tutti gli strumenti per renderlo attore protagonista del mondo lavorativo che ha scelto. Gli ha mostrato l’unità di teoria e pratica, gettandolo nel paragone reale e costante di un Ristorante didattico aperto al pubblico (che abbiamo chiamato “Saporinmente” a questo scopo: illuminare il sensibile nell’intelligibile); ha fatto fruttare parte del suo tempo estivo in tirocini di alto livello, in strutture ampiamente riconosciute, in Italia e all’estero (e non certo indulgenti sulla fatica del mestiere); ha sempre puntato sull’accrescimento della sua passione in sala, cucina, bar, pasticceria e sommellerie, di cui gli hanno procurato tutte le certificazioni necessarie; ha disegnato un percorso per cui è arrivato a organizzare serate di fine dining di rilevanza culturale per il territorio.
Un professionista del genere è già in grado di partecipare attivamente alla gestione del ristorante, ha le basi economiche, matematiche e di diritto per riflettere su food cost e costi di gestione; collabora con i nutrizionisti, perché ha imparato a guardare il cibo come struttura molecolare, ne ha approfondito i chemiorecettori e la metabolizzazione; è creativo perché possiede la conoscenza linguistica per inventare e raccontare i piatti che cucina; è in grado di individuare nessi tra l’arte e il piatto; insomma è in grado di condividere il rischio imprenditoriale di chi lo stipendia.
È questa la panacea di tutti i mali della ristorazione? Certo che no. È, però, una risorsa imprescindibile per costruire il futuro oltre questa profonda crisi. Ma questi giovani non staranno molto ad aspettare: ristoratori ed enti del settore si facciano sotto, si mettano a fianco delle scuole di valore, propongano le loro maestranze, i loro praticantati, o li vedranno muoversi altrove, spendere i loro talenti magari per un bell’e-commerce di successo. Carpe diem.
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