Sembrerà forse un po’ “fuori tempo” una riflessione sul completamento dei programmi, ora che la scuola è terminata. Però questo è anche il tempo dell’esame di Stato, o di maturità come vorrebbe chiamarlo il ministro – e la cosa non ci dispiace –: è quindi il momento in cui si può verificare concretamente se questi programmi devono essere completati in vista della maturità (o degli esami di terza media).
Già, perché se si potesse andare a verificare in una delle migliaia di commissioni di maturità, vedremmo che, della famosa e annosa questione dei “programmi”, non c’è traccia.
Nella mia carriera di docente non ho mai visto sorgere un problema sullo svolgimento dei programmi: certo, in alcuni casi ci sono stati commissari che magari si lamentavano un po’ perché il collega interno non aveva svolto un programma analogo al proprio, oppure perché in storia si arrivava solo alla prima guerra mondiale; o si proponeva ancora Leopardi durante il quinto anno. Ma a parte qualche annotazione del genere, non si è mai dato corso a nessuna azione per sanzionare un’eventuale anomalia. Perché – in realtà – di anomalia non si tratta.
Infatti l’introduzione dell’autonomia scolastica, sancita con il DPR 275 del 1999, ha bandito i “programmi” rigidi e prescrittivi: tanto che oggi sono sostituiti dalle Indicazioni nazionali per il primo ciclo e per i licei o dalle Linee guida per gli istituti tecnici e professionali. Gli insegnanti ancora oggi parlano di “programma”, ma esso non esiste più da tempo.
D’altra parte, ancor prima di tale azione normativa, nulla succedeva neppure nella scuola dei programmi “prescrittivi”: infatti non ricordo alcun procedimento adottato dalle commissioni o dai loro presidenti nei confronti di programmazioni “inconsuete”, neppure una annotazione scritta su un qualche verbale di esame.
Perché anche nella scuola ante 1999 era evidente – così come lo è ora – che la commissione è tenuta a interrogare e verificare la preparazione degli studenti sulla programmazione realmente svolta, non già su quella che avrebbe dovuto essere sviluppata, perché ciò penalizzerebbe gli studenti.
Eppure ancora oggi i docenti sbandierano il famoso mito del programma da terminare, come se fosse un mantra intoccabile, un Ipse dixit inviolabile e granitico: ma poi chi sarebbe questo Ipse? Il ministero? In verità, il Mim dice l’esatto opposto.
Peraltro, chi termina il programma? In Italiano, ad esempio, quali sarebbero “tutti” gli autori da svolgere, in vista della prima prova scritta, in assenza di un canone definito? E infatti, anche quest’anno, ben pochi sono stati gli studenti che hanno studiato gli autori proposti nel tema di maturità, cioè Pasolini e Tomasi di Lampedusa.
Ma perché non vi è più “il programma” rigido? Per delle ragioni pedagogiche ed educative. Innanzitutto per la personalizzazione.
Infatti ogni classe è diversa dall’altra, e non è pensabile che le programmazioni svolte siano del tutto identiche l’una all’altra. Perché in ogni classe possono esserci stati “incidenti di percorso” durante l’anno (assenze dei docenti, problematiche disciplinari, difficoltà di apprendimento) che giustificano svolgimenti diversificati.
Ancora, perché occorre lasciare spazio a ciò che succede in classe (come dice Gustavo Zagrebelsky ne La lezione, Einaudi 2022): per cui, se durante una spiegazione la trattazione prende una piega particolare, l’insegnante può seguirla, per approfondire un argomento che ha suscitato grande interesse; per poi tornare sulla strada principale senza disperdersi. Perché la lezione è una passeggiata (come la definisce Pavel Florenskij) non un percorso rigido e precostituito, in cui è importante il tragitto, non semplicemente la meta.
Perché correre e correre per “finire il programma” significa far ingurgitare ai ragazzi nozioni e nozioni, che poi evaporano.
Per di più, la corsa al completamento del programma crea il problema delle verifiche che si affastellano alla fine dell’anno creando grande ansia nei docenti e negli studenti.
Sia ben chiaro, queste riflessioni non sono un incitamento a fare poco, ci mancherebbe!, ma a non cadere nel ricatto che la buona scuola sia quella che completa il programma.
E semmai sono l’invito ad una riflessione su come giungere al termine delle programmazioni senza tagliare – semplicemente in modo lineare – parte di esse: piuttosto a rivedere criticamente la quantità delle nozioni (che, tra l’altro, si accrescono sempre di più) per una ricerca della qualità delle conoscenze. Per questo potrebbe essere importante lavorare sui nuclei fondanti, ossia quei concetti e strutture essenziali che costituiscono le fondamenta del sapere, sfrondando quello che non è del tutto essenziale; nella logica del “poco ma bene”, rinunciando a contenuti secondari per privilegiare quelli realmente formativi.
Insomma l’ossessione per la conclusione del programma è una delle principali cause di stress tra gli insegnanti, che temono di “restare indietro” rispetto a un “ipotetico” cronoprogramma spesso percepito come obbligatorio.
Non è questa la scuola che vorremmo, ma una scuola in cui il lavoro fosse sostenuto dalla ricerca di un significato e di un certo gusto, che viene del tutto eliminato dalla scuola delle performances: dove ciò che conta è arrivare alla fine, costi quel che costi, anche studiare senza alcun senso. Una scuola così ci piace poco.
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