Nei primi mesi delle vacanze scolastiche di quest’anno ho ricevuto via mail alcuni testi creativi, scritti da miei alunni. Nelle mail mi si chiedeva, con circospezione e deferenza, se avessi voglia di leggere le loro produzioni, se avessi suggerimenti in quanto a lingua e stile, se consigliassi loro di continuare a scrivere o smettere…
Ricevere questi testi, leggerli e rispondere alle loro mail sono cose, come si può immaginare, straordinarie per un insegnante di lettere. Dico straordinarie, ma solo nel senso burocratico della parola: cose che si collocano oltre l’ordinario, perché avvengono, come la deferenza dei mittenti lascia intuire, fuori dall’ordinario del lavoro: non sono compiti né ruffianerie (la maggior parte non saranno più alunni miei). Sono cose davvero ordinarie, invece, perché hanno a che fare con i ragazzi per come sono, per come sentono la vita, per le contraddizioni e le speranze che portano con sé ogni giorno, anche a scuola.
Ad esempio, nella poesia intitolata Freddo, T. descrive una calda “giornata soleggiata” a scuola:
Sento freddo, e non parlo del freddo dei gradoni della
pista di atletica dalla quale guardo i miei
coetanei schizzarsi con l’acqua e lasciar entrare il
calore del sole nel loro animo.
Il calore del sole non basta però neanche a lei:
Sento caldo (…) eppure, nonostante questo
se mi guardo dentro vedo una distesa di ghiaccio dove ho
lasciato che il dolore e la paura
piovessero a dirotto per giorni lasciando solo buio.
È più facile dalla pista di atletica soleggiata capire che quell’“angolino” di mondo quasi piacevole “altro non è / che un buco in mezzo al petto”, “un posto dove se non c’è niente di / bello, il brutto diventa relativo”. Ma T., che pur essendo giovane ha già sperimentato la perdita di una persona cara, non è disperata, attende:
vorrei solo vedere una mano
che prendesse la mia, mi guardasse e mi
abbracciasse fino a quando le lacrime salate non
avranno completamente corroso le mie
guance, per poi morirmi sulle labbra.
Le poesie di M. parlano di un amore finito male. La paura di essere traditi e abbandonati è la più grande:
E mentre guardo il cielo io a te penso perché
mi hai fatta stare bene e poi male,
mi hai trattata come se fossi l’unica e poi
scartata come se fossi il nulla.
Mi hai dipinto il cuore meglio di Monet e
poi mi hai riempito il volto di lacrime.
(…)
A volte rido, altre piango e neanche io riconosco
ciò che voglio.
Nella prosa di G. si riconoscono le letture leopardiane su cui ho interrogato, ma, a quanto pare, ora sono parole con cui descrivere sé: “Sono così piccola rispetto all’universo, ma grandi sono i sogni che risiedono nella mia testa; sogno ad occhi aperti, sogno in grande e sogno l’impossibile (…). Ecco, ‘irrealizzabile’ è l’aggettivo che mi definisce”. G. valuta le persone in base all’ampiezza dei loro sogni: “Solitamente le persone sognano per gusto di farlo e immaginano anche le cose più banali e semplici che accadono ordinariamente, sogni talmente noiosi che non sono capaci nemmeno di far brillare gli occhi al sognatore. Io sono una persona differente: se sogno lo faccio in grande, ma saper sognare in grande è difficile in quanto il sogno, spesso, quasi sempre, è qualcosa di irrealizzabile”. Ma questi sogni non sono una fuga dal mondo perché si è accorta che “Ecco, accettare la realtà è difficile, molto faticoso, ma col tempo, con gli anni e con la crescita si inizia ad accettare ciò che in passato ci siamo rifiutati di credere che potesse essere qualcosa di vero”.
E., in attesa del grande amore, ha trasposto in un romanzo a capitoli la sua esperienza, in cui l’incubo peggiore è quello di essere “traditi e abbandonati” perché questo ti illude “sulla realtà e sulla grandezza del momento”. Alla riflessione sull’abbandono segue il capitolo intitolato “Quel puntino invisibile”.
“Questo pensai fissando quel puntino che a ogni evenienza si spostava sulle pareti della camera, seguendo il mio sguardo che cadeva in un vuoto profondo… un nero profondo. Sì beh, forse voi non ce l’avete il vostro puntino, ma lo troverete presto, perché certamente non sapete di averlo. Il mio è piccolo e nero, tanto nero che non lo riesco a vedere, ma che osservo e studio attentamente, talvolta cercandolo anche solo per smettere di cadere in trappola degli intelletti pericolosi: quello che fa piangere, o quello che ti logora e ti riapre una vecchia ferita che all’aria ti fa percepire un inferno che nessuno conosce, ma che solo tu puoi sentire. Mi aiuta a cadere nel mare profondo dei pensieri e delle domande, ma mai in quello delle risposte. Perché se ci fate caso un momento, quando smettete di studiarlo? Quando finite di ragionare e la mente si concede una breve pausa, molto piccola, giusto per capire se nella realtà qualcosa o qualcuno ti sta chiamando, e sta accadendo qualcosa per te in quel preciso istante”.
Questi stralci mi sono tornati alla mente ora che, come ogni settembre, mi metto alla ricerca di parole affidabili per comunicare la speranza di bene che, per grazia, anima i miei inizi d’anno. È necessario, infatti, ricordarsi ogni volta cosa sostiene l’impeto iniziale, perché è proprio vero che anche a scuola “se non c’è niente di bello, il brutto diventa relativo”.
Cosa augurare a me, ai miei colleghi e tutti gli studenti che iniziano l’avventura della scuola? Non ho trovato parole migliori di quelle dei miei alunni: che possa accadere di incontrare “nella realtà qualcosa o qualcuno” che “ti sta chiamando”, e capire così che, qualunque cosa stia accadendo, “sta accadendo (…) per te in quel preciso istante”. Qualcuno che, come Monet, ci faccia vedere la realtà e nostro cuore per quella meraviglia che sono, e non ci abbandoni alla nostra solitudine.
Buon anno.
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