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Home » Educazione » Scuole Superiori » SCUOLA/ Recalcati, la luce e l’onda: stop a docenti-coach e tutor, i giovani “chiedono” maestri

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SCUOLA/ Recalcati, la luce e l’onda: stop a docenti-coach e tutor, i giovani “chiedono” maestri

Giorgio Chiosso
Pubblicato 20 Ottobre 2025
Bambini pronti ad entrare a scuola (Ansa)

Bambini pronti ad entrare a scuola (Ansa)

Massimo Recalcati è autore de "La luce e l'onda. Cosa significa insegnare?". Che in molti dovrebbero leggere, da chi lavora nella scuola a chi la governa

Da molto tempo è scomparso dalla scena della cultura scolastica contemporanea il tema del maestro, dell’autorevolezza che ne sostiene l’azione educativa e delle qualità umane ed educative che deve possedere. La stessa parola è ormai desueta, ha un sapore antico, icona di una scuola che non direbbe più nulla al nostro tempo, chiusa da una pietra tombale, parola spodestata da altre espressioni come insegnante, docente, tutor, coach, facilitatore e molte altre ancora partorite dalla fantasia di pedagogisti, psicologi, tecnologi.


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Beninteso, di insegnanti si parla ad ogni piè sospinto e ci sono apposite organizzazioni che se ne occupano, tutelandone gli interessi e operando per migliorarne la professionalità. Ma da alcuni decenni (almeno dai tempi in cui nella protesta del Sessantotto circolava lo slogan “né padri né maestri”) il tema dell’insegnante è visto quasi esclusivamente sotto il profilo del buon funzionamento della scuola e non delle sue qualità di educatore: la struttura dell’organico, il salario, la carriera, la padronanza delle metodologie d’insegnamento, la giusta dose di sensibilità empatica, giusto per non entrare in rotta di collisione con allievi e colleghi.


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Dalla scena politico-scolastica è insomma scomparso il dibattito sulle peculiarità del buon insegnante e cioè sulle sue qualità intellettuali, morali e comportamentali che fanno sì che egli rappresenti “qualcuno” per i suoi alunni e cioè una figura di “adulto significativo” importante, tanto da poter essere percepito come un maestro.

Ormai soltanto tra i bambini della scuola primaria si riconosce all’insegnante il titolo di “maestro”, spesso indice, nell’ingenua semplicità infantile, di verità inoppugnabili, fino a considerare l’autorevolezza del “signor maestro” e della “signora maestra” superiore a quella dei genitori.


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La storia restituisce la memoria dei grandi maestri (Socrate, Agostino, Erasmo), la pedagogia e la filosofia si sono sforzate di delinearne le qualità in negativo e in positivo (Rousseau, Pestalozzi, Gentile) fino a quando il maestro è stato visto e descritto come l’insopportabile manifestazione dell’autorità e del potere, scomparendo dalla scena.

Lo spazio lasciato vuoto dalla figura magisteriale è stato colmato dai sostenitori del funzionalismo tecnocratico del nostro tempo con l’obiettivo, in sostanza, di confinare dirigenti e docenti in una sorta di ruolo impiegatizio a buon mercato, sganciato dalla dimensione intellettuale e morale come è stato almeno fino all’ultimo quarto del secolo scorso.

Contro questo rischio si levano autorevoli voci per denunciare una pericolosa deriva e rilanciare la tesi che non può esistere una buona scuola senza buoni maestri ed affidata soltanto ad insegnanti efficaci. A sottolineare l’importanza del maestro è ora il saggio di Massimo Recalcati La luce e l’onda. Cosa significa insegnare? (Einaudi, 2025) che nel richiamarne il ruolo strategico si accompagna alle riflessioni di Ivano Dionigi consegnate qualche mese fa al suo Magister.

Il maestro non è un insegnante eccezionale, una specie rara dotata di particolari doti e prerogativa di pochi eletti, ma colui che “sa generare allievi che sappiano diventare meglio di lui e che sappiano oltrepassare l’orizzonte, sapendo tramontare nel momento più giusto”.

Massimo Recalcati (Ansa)

L’insegnante che ambisce a essere maestro, come recita il titolo del libro con efficace metafora, è “luce” e “onda” nello stesso tempo: “luce perché allarga l’orizzonte del nostro mondo” sospingendoci a fare nostro il sapere, ma anche onda “poiché incarna l’impatto dell’allievo con qualcosa che resiste che ci costringe a trovare il nostro stile”.

Quello che scolasticamente viene acquisito va cioè ripreso in modo personale, assimilato e reinventato. L’apprendimento non si realizza, perciò, per soddisfare quello che il maestro si attende dai suoi allievi, “non si piega al principio di prestazione, alla performance necessariamente impeccabile”.

Al tempo stesso il maestro non detiene il sapere per sé stesso – in una sorta di narcisistico culto della propria competenza –, ma sparge i semi perché la conoscenza autentica si moltiplichi tra i suoi allievi: “Un insegnante che dispensa solo insufficienze e non si chiede perché nella sua classe vi sono solo allievi impreparati non ha nulla a che fare con il gesto del maestro. È un burocrate frustato che esercita un potere arbitrario se non brutale”. Il maestro si giudica non solo dal sapere prodotto e trasmesso, ma “anche dagli allievi che ha generato”.

Il moto pendolare tra “luce” e “onda”, a sua volta, è condizione, scrive l’autore, perché la scuola non si riduca a “dispositivo istituzionale” deputato a ripetere e disciplinare, irrimediabilmente portato all’esercizio di un autoritarismo soffocante, ma risponda alla sua vocazione anche educativa. Preparare i giovani a cavalcare l’onda significa fornire agli studenti gli strumenti per gestire sia il cambiamento in generale sia a situarsi in esso senza subirlo e senza restare vittima dell’incertezza che ci circonda, e che non di rado superiamo (o crediamo di farlo) affidandoci agli strumenti posti a disposizione dalla tecnologia.

In definitiva ciò che davvero conta nella frequenza scolastica non è soltanto la performance misurabile, ma la fermentazione dell’umano che vive in ciascun allievo, un’esperienza immateriale che nemmeno le più sofisticate metodologie d’indagine sono in grado di rilevare e che l’autore, richiamando alcune pagine di Pasolini, identifica nel “desiderio di oltrepassare un limite”, “di farsi catturare dall’enigma che il desiderio di sapere del maestro costituisce per l’allievo”.

Recalcati ritiene perciò la scuola un’istituzione essenziale – una radura aperta pronta a essere esplorata dietro la parola sollecitante del maestro – per favorire l’incontro dell’allievo con la realtà: non c’è educazione se non si è in grado di confrontarsi con le questioni vitali della vita, dal lavoro al governo di sé, dalla partecipazione comunitaria alla responsabilità personale.

Nulla, dunque, di più lontano in Recalcati dai due rischi che minacciano seriamente la scuola del nostro tempo e che sotto traccia ne minano la credibilità.

Il primo è rappresentato dalla tesi secondo cui la scuola “non serve” e che l’autentica formazione personale non ha bisogno di maestri, ma è un “fai da te” che – nel migliore dei casi – può ricorrere al sostegno di semplici occasionali compagni di viaggio e/o di qualche amico.

Non meno discutibile è l’idea che – in quanto inclusiva – la scuola debba essere compassionevole, non solo aperta alla comprensione per la fatica richiesta dallo studio, ma pronta a tollerare la mediocrità intellettuale e la banalità dell’anti-autoritarismo vecchia maniera. Proprio la scuola inclusiva, più di ogni altra, ha bisogno di buoni maestri.

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