C’è qualcosa di rituale e vagamente tribale negli scrutini di fine anno. Ufficialmente sarebbe il momento in cui i docenti si riuniscono per valutare il percorso degli studenti. Ufficiosamente, sono una specie di rito di passaggio in cui la scuola italiana si mette la toga da tribunale, affila le penne rosse e si prepara a dare i voti. O, come piace dire ai più aggiornati, “esprimere una valutazione oggettiva e ponderata”.
Sì, certo. Come no. Dentro le aule blindate in cui si svolgono gli scrutini – “blindate” perché guai a far trapelare una parola prima che le pagelle siano pubbliche – si consuma una liturgia che ha tutto il sapore dell’antico. Il registro elettronico è lì, aperto come un oracolo moderno, e ogni docente pronuncia il suo verdetto come un sacerdote austero. “Per me è da sei”. “Secondo me non ha fatto il salto”. “Ha una media del 5,96… che facciamo?”.
Già, che facciamo? Nella scuola del terzo millennio, che non sa più se è un’istituzione educativa o un centro servizi, il voto finale è diventato una specie di sigillo ontologico. Un marchio. Un’etichetta. Sei o non sei. Promosso o rimandato. Dentro o fuori. Viva l’inclusività, finché non si parla di matematica.
E così, mentre fuori i ragazzi sognano la spiaggia o, più probabilmente, il divano, dentro si decide se avranno un’estate tranquilla o se dovranno “recuperare le carenze” (locuzione di rara ipocrisia: il più delle volte significa passare luglio a fare schede noiosissime o a copiare appunti da qualche amico).
Il bello – si fa per dire – è che chi partecipa a questi scrutini lo fa spesso con un misto di stanchezza e autocompiacimento. C’è il professore inflessibile, che si oppone a ogni sanatoria. C’è quello buonista, che “alla fine un sei lo si può dare, dai”. C’è il docente ferito, che vuole far pagare al ragazzo il mancato rispetto delle sue consegne. C’è chi, sotto sotto, si gode il potere. E c’è chi vorrebbe essere altrove, magari al mare pure lui.
La verità? È che gli scrutini raramente dicono qualcosa sul valore reale di uno studente. O, peggio ancora, sulla sua crescita personale. Perché il problema non è se un ragazzo sa l’equazione di secondo grado o la guerra dei Trent’anni: è se riesce a crescere come persona, a sbagliare senza rompersi, a pensare senza copiare, a stare con gli altri senza autodistruggersi.
Ma queste cose, si sa, non fanno media. Invece, fa media la puntualità, la costanza, la prestazione. Una scuola sempre più aziendalizzata valuta ciò che può essere misurato, anche se spesso è irrilevante. E così il voto diventa lo specchio deformante di una crescita che non si sa più come guardare, perché per guardare una persona servirebbe tempo, ascolto e un minimo di cura. Molto più facile dare un numero.
Dall’altra parte, poi, ci sono loro: i ragazzi. Alcuni hanno capito il gioco e si adattano. Altri si ribellano. Altri ancora si rassegnano. In fondo lo sanno che, in molti casi, a fare la differenza non è il loro impegno ma il contesto, l’umore del consiglio, la media aritmetica o – diciamolo – la simpatia che suscitano. E sanno anche che in certi casi puoi anche prendere nove, ma sentirti comunque fuori posto. Oppure prendere cinque, ma sentirti vivo.
È curioso che nessuno, durante gli scrutini, chieda mai: questo ragazzo sta crescendo? Sta trovando un senso? Sta diventando più umano? Troppo difficile da misurare. Non compare tra le “competenze”. E allora si va avanti, si chiude il verbale, si firma, si stampa, si emana la circolare.
Qualcuno se ne va soddisfatto, qualcuno amareggiato, qualcuno confuso. E tutti, docenti e studenti, si portano addosso i segni di un sistema che continua a confondere l’educazione con la valutazione, la crescita con la performance. Ma il punto vero resta lì, muto, in mezzo all’aula vuota: chi sta diventando uomo, qui dentro? Forse non lo sa nessuno. Ma è l’unica cosa che dovrebbe interessare.
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