La recente pubblicazione delle “Nuove Indicazioni 2025” per la scuola, elaborate dalla commissione voluta dal ministro Valditara, ha suscitato una pioggia di reazioni specialmente nel mondo degli storici. Sarà perché gli storici hanno facilità a polemizzare, ma forse la ragione sta nel fatto che proprio la storia è cartina tornasole di alcune linee di fondo. Lo stesso Valditara, intervistato sulle pagine del Corriere della Sera (12 marzo), ha ribadito che la volontà di restituire centralità alla storia e alla poesia dell’Occidente è uno dei punti cardine della proposta.
Considerando che il documento pubblicato si presenta come “Materiali per il dibattito pubblico” (così recita il sottotitolo), credo che valga la pena raccogliere l’invito. La scuola e le nuove generazioni rappresentano il nostro futuro ed è sempre bene tenere aperte le porte della discussione, vincendo lo scetticismo che nasce di fronte alla capacità della scuola di ingoiare e depotenziare ogni indicazione dell’ennesima riforma. E soprattutto senza dimenticare che la risorsa della scuola sta soprattutto nei suoi protagonisti, ovvero un corpo di insegnanti che scelgono un mestiere non per convenienza e le nuove generazioni che non sono contenitori da riempire di saperi.
Ricordo innanzitutto che le “Nuove Indicazioni” sono rivolte alla scuola dell’infanzia e alle medie di primo grado, e dopo una “Premessa culturale generale della nuove indicazioni” scendono nel merito dei due percorsi formativi. Considerando le mie competenze, mi limiterò a qualche rilievo relativo all’insegnamento della storia alle medie, ovvero lì dove le “Nuove Indicazioni” parlano del “perché si studia storia”.
Già le prime frasi, come accennavo, hanno suscitato immediate levate di scudi: “Solo l’Occidente conosce la Storia. Ha scritto Marc Bloch: ‘I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici’”. A parte la decontestualizzazione della citazione del noto studioso francese su cui non mi dilungherò, è fuor di dubbio che Erodoto e Tucidide abbiano introdotto le categorie essenziali della conoscenza storica come noi le conosciamo. Ma che altre culture abbiano prodotto solo “compilazioni annalistiche”, senza “alcuno sviluppo” e pertanto “non segnando in alcun modo la propria cultura” è inaccettabile.
Basterebbe considerare la storia della Cina, l’impero del “mandato celeste”, per confrontarci con un’altra civiltà millenaria che ha stabilito un diverso rapporto con le origini e la continuità storica. Ogni cultura, ogni “noi” in qualunque forma, si fonda sempre sulla memoria di avvenimenti, di origini e memorie di fatti vissuti e condivisi.
Altri punti discutibili nascono poi di fronte all’affermazione che la “cultura occidentale” si sia fatta “intellettualmente padrona del mondo”. Oltre alla supponenza delle “magnifiche sorti e progressive”, non si dovrebbe mai dimenticare che l’“Europa” non si identifica con “Occidente”, ma, come si diceva un tempo (e io continuo a ripeterlo), va “dall’Atlantico agli Urali”. Senza contare che queste forme di orgoglio occidentale e nazionalistico alzano trincee laddove invece dovremmo imparare a riflettere (fenomeni come la cancel culture o il decolonising classics sono alle nostre porte).
Potrei proseguire queste osservazioni parlando della persistente compressione nei programmi proposti dei mille anni di medioevo (ma, come medievista, sarei facilmente accusabile); oppure della riproposizione di Machiavelli come campione della “riflessione teorica” sulla politica (cosa che ho fatto in altra sede). Ma credo che il punto più critico su cui fermare l’attenzione sia un altro, ovvero là dove le “Nuove Indicazioni” affermano come cosa acquisita che “la Storia consiste nel pensare i fatti” (il corsivo è mio).
La cosa mi ha talmente provocato che la mattina dopo sono andato in aula (matricole del corso di storia medievale), ho letto questa frase e ho aggiunto: “se alla fine del corso non avrete trovato nella vostra esperienza di vita, di lavoro in aula e di studio qualcosa che contesta questa idea, io avrò fallito”. Se studiare storia non fa emergere il senso che i fatti si incontrano e non si pensano, che ne rimane della storia? “Io cerco per sapere qualcosa, non per pensarla” diceva sant’Agostino.
Concludo queste brevi note dicendo che non basta affermare principi sui quali possiamo essere tutti d’accordo, come la crescita della persona o il pensiero critico, perché con le stesse parole si possono ottenere risultati molto diversi e i nodi vengono al pettine quando si entra nella pratica delle discipline. La storia non è solo contenuti o fatti “da pensare”, ma è l’occasione (aggiungerei privilegiata) per la costruzione condivisa di un sapere sulla realtà umana che impegna la ragione e interpella l’esperienza. E le sfide con cui dobbiamo confrontarci non si risolvono costruendo identità nazionali che producono solo bigottismi “pro” e fanatismi “contro”.
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