Si può (ancora) insegnare letteratura a scuola? Si possono proporre i “classici” a chi non capisce ciò che legge, a giovani che non sembrano avere interesse per testi che risultano lontani nella forma e nei contenuti?
La questione è stata recentemente sollevata da alcuni articoli pubblicati dal Sussidiario. Non riguarda solo la letteratura e la poesia; allargherei il discorso anche alla musica e all’arte nelle sue varie espressioni. La problematica è presente nella formazione post-obbligatoria, ma sempre di più anche negli ultimi anni di scuola media (da noi, nel Canton Ticino, la III e la IV media).
Non mancano esempi che documentano un certo interesse per letteratura e arte, ma il trend sembra chiaro e solleva giustificate preoccupazioni (osservo, per inciso, che sembrano invece più ricettivi i bambini della scuola elementare. Ma questa è una costatazione che andrebbe ulteriormente approfondita).
Negli articoli citati si individuano le maggiori cause del problema nelle gravi carenze linguistiche degli allievi e nella inadeguata presentazione dei testi da parte degli insegnanti. Come accennato, le difficoltà non riguardano solo l’insegnamento della letteratura. Lo stesso discorso vale infatti anche per altre forme di sapere che attingono alla nostra tradizione culturale.
In questa prospettiva ritengo che le problematiche messe in luce dagli autori degli articoli siano da tenere seriamente in considerazione, benché non possano giustificare rinunce a un sapere fondamentale per conoscere sé stessi e incontrare l’altro.
Tra le ragioni che hanno favorito queste forme di emergenza educativa vi è uno sconvolgimento dell’ordine dei valori che si è diffuso anche attraverso la scuola.
La formazione “funzionalistica” degli insegnanti, basata su sviluppo delle competenze e obiettivi di apprendimento, ha ridotto la persona alle sue prestazioni misurabili, secondo i parametri utilitaristici del mercato, come più volte ci ha ricordato Miguel Benasayag.
Tutto il resto non conta o viene relegato nell’ambito di gestione delle emozioni individuali. Il disagio, la fatica, la paura, sono malattie da eliminare e soprattutto che non devono interferire sull’efficienza operativa. Così anche il desiderio di bellezza, di bontà, di verità finisce per essere collocato fuori dal mondo della vita, quando invece ne è il primo motore. Di conseguenza si devitalizza.
Gli insegnanti hanno subìto e continuano a subire, e non solo loro, questo processo. Sono però nella condizione di percepire che non tutto può essere ridotto a funzione ed essere misurato con i parametri dell’utilità. È la realtà che ce lo insegna.
Oggi, proprio questo desiderio di bellezza e di verità sembra assente nei giovani. Il futuro fa paura, il passato è incomprensibile. La speranza naturale con cui tutti veniamo al mondo, soprattutto nei giovani, trova per lo più espressione in un doloroso disagio che, tuttavia, non diventa domanda e ricerca di senso. Il disagio è certamente espressione di una domanda sul senso dell’esistenza che non viene però riconosciuta. Non sappiamo dove ci porta il futuro, che pur assorbe tutte le nostre attese e ci getta nell’ansia.
Tuttavia, soprattutto noi adulti sappiamo che esiste un passato, che è accaduto, e noi, più o meno consapevolmente, ne siamo gli eredi viventi e i testimoni di fronte agli altri.
Ora, la credibilità di un fatto, di un sapere, di un contenuto disciplinare scolastico passa e viene accolto per lo più attraverso l’umanità di chi lo comunica. Non è reso plausibile dalla capacità di chi ne dà la migliore definizione “oggettiva” o addirittura dalla sterile pretesa di possederne la chiave interpretativa, ma dall’adesione al fatto con tutte le proprie facoltà umane.
Gli allievi che ci ascoltano devono capire anzitutto che crediamo in quello che diciamo. Proprio perché ci crediamo possiamo trovare il modo per condividerlo.
Luigi Giussani usava il termine affectus, per indicare l’adesione ai dati di realtà che risvegliano le esigenze del cuore e la nostra umanità e con essa la nostra libertà. Per gli insegnanti questa è la principale sfida. Molte evidenze sono crollate, i giovani sembrano non più in grado di capire. Non dispongono di tutte le competenze necessarie per riconoscersi in ciò che viene loro insegnato. È un’osservazione ovvia che non costituisce e non deve costituire un impedimento.
Un collega mi diceva che nel suo corso di chimica vi erano argomenti che gli allievi non potevano pienamente capire per mancanza di altre conoscenze, per esempio in ambito fisico o matematico. Di ciò informava apertamente la classe. Gli allievi dovevano solo limitarsi a far proprie le spiegazioni del loro insegnante.
Funzionava; studiavano e si davano da fare per ottenere buoni risultati. Decisiva era l’esperienza che avevano del rapporto con il loro insegnante; con chi li stava guidando in un cammino di conoscenza che via via diventava interessante anche per loro.
La poesia, la letteratura, la musica sono espressioni fondamentali dell’esperienza umana e manifestazioni del bisogno di significato e di relazione. Ad esse la scuola, come ambito educativo, non può rinunciare.
Paradossalmente, soprattutto nei giovani oggi, non c’è nessun “amore” per la poesia, la letteratura o la musica che renda scontato il loro studio. Occorre, proprio attraverso l’insegnamento, risvegliare il nostro affetto per la realtà, che ci spalanca al mondo.
Succede, e più delle spiegazioni ce lo dicono gli esempi. Una insegnante raccontava questo episodio. Doveva parlare di Leopardi a una classe formata da stranieri, molti extraeuropei. La domanda che si pose era quasi inevitabile: “che gliene frega di Leopardi a un pakistano?”
La sua risposta fu un’altra domanda a cui non poté sfuggire: “Che cosa me ne frega a me?” E con questa domanda, andò in classe e iniziò la lezione. Quei ragazzi non sapevano nemmeno chi fosse Leopardi. L’insegnante disse che questo poeta aveva scritto una poesia intitolata Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. E spiegò che le parole erano di quel pastore e che esprimevano le domande di tutti gli uomini, non di chi è italiano o europeo.
Chiese a loro di paragonarsi con quelle domande mentre lei la leggeva. L’ascoltarono. Alla fine, li interpellò per sapere se il titolo della poesia, secondo loro, fosse adeguato, se quella poesia fosse veramente il “canto di un pastore errante dell’Asia”, ed essi risposero: “È il mio canto notturno”.
“La bellezza salverà il mondo!”, diceva Dostoevskij; ma non senza di me, non senza la testimonianza della nostra umanità.
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