Al centro della recente Convention di Diesse la sfida della personalizzazione: la scuola diventa viva solo se l'unità di "misura" è la persona
L’edizione 2025 della Convention Scuola di Diesse un punto l’ha rimarcato chiaramente: non esiste lo studente “medio”, così come non esiste l’insegnante “medio”. L’esperienza scolastica per i nostri bambini e bambine, per tutti i nostri giovani, può diventare davvero significativa solo se si gioca in una relazione autentica tra due “soggetti”: l’io dello studente e l’io del docente.
È stato un po’ questo il nodo del vivace dialogo tra Andrea Bobbio, docente di pedagogia all’Università della Valle d’Aosta, e Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, che ha aperto la 17esima edizione dell’annuale iniziativa promossa dall’associazione professionale Diesse (Didattica e innovazione scolastica), svoltasi a Rimini presso il Centro Tarkovskij e la scuola della Karis Foundation lo scorso fine settimana, e che ha visto alcune centinaia tra maestri e insegnanti di tutta Italia dialogare sulla “sfida della personalizzazione”.
Perché la scelta di questo tema? Viviamo in un contesto in cui tutte le classi appaiono difficili, non solo nel senso che ogni giorno occorre fare i conti con una varietà di situazioni che ben conosciamo – dalla presenza di studenti stranieri alle diverse forme di difficoltà di apprendimento – ma anche, e soprattutto, perché si avverte la necessità di insegnare avendo a cuore il percorso di ciascuno degli alunni che si hanno davanti: sia di valorizzarne i talenti, sia di dare supporto nelle situazioni di fragilità.
Una doppia sfida, quindi: quella di continuare a contrastare la dispersione, anche nelle sue forme implicite, e quella di far crescere alunni e studenti nel pieno della propria personalità, curiosi, aperti al futuro, insomma far crescere le persone da un punto di vista umano e culturale.
A questa sfida la Convention ha cercato di rispondere chiarendo che la personalizzazione, cioè il diritto di tutti di avere la “propria” eccellenza, può essere perseguita non tanto con la ricerca di sempre nuove strategie didattiche o strumenti (magari confidando nelle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale), di cui pure si è parlato e che devono essere padroneggiati consapevolmente perché la didattica sia efficace, ma è soprattutto una questione di “metodo”.
In che senso? Il prof. Bobbio ha ancorato il tema ai fondamenti pedagogici e filosofici, con richiami che hanno spaziato, con prospettive diverse, da Claparède a Bruner, da Mounier a Ricoeur: sono risuonate così parole importanti come conoscenza di sé, autocoscienza, soggetto e intersoggettività.
Inevitabilmente, il ragionamento è andato anche su quale sia lo scopo della scuola oggi: domanda complessa, ma è stata importante la sottolineatura che essa è ancora chiamata a essere luogo di cultura, dove però la cultura non è da pensarsi come fine a se stessa (col rischio che diventi erudizione), ma deve essere lo strumento per far fiorire la personalità dei giovani.
L’intervento della professoressa Migliarese, invece, si è concentrato sui vari aspetti che possono determinare una relazione tra adulti e giovani: interessante, ad esempio, la necessità di ben inquadrare il nesso tra due azioni cui sono chiamati gli insegnanti, quella di “guidare” (cosa vuol dire? verso dove?) e quella di “capire” (che non può essere “giustificare”).
Insistere sul metodo, è stato evidenziato, vuol dire che nella dinamica educativa non basta un progetto, seppure ben costruito, ma è necessaria un’attenzione per la relazione, che chiede la disponibilità a un lavoro sull’io, tanto dell’alunno quanto dell’insegnante.
Così sono risuonate più volte parole importanti: fiducia, stima, regole, correzione.
Avere consapevolezza degli stili di apprendimento e delle fasi di sviluppo dei ragazzi è decisivo per chi educa, ha ricordato la Migliarese, anche rispetto alla definizione della giusta distanza che deve essere mantenuta nella relazione, che deve essere collocata sempre nella prospettiva del compito della scuola.
Nella due giorni di Rimini è stato di assoluto rilievo lo spazio riservato al lavoro di circa una ventina di workshop trasversali, cioè con la partecipazione di insegnanti di diversi ordini di scuola, definiti intorno ad aree disciplinari.
Il valore di questo confronto è stato quello di misurarsi con esperienze professionali caratterizzate dal tentativo di mettere in atto dinamiche didattiche attente alla personalizzazione dell’insegnamento: innanzitutto si è avuta la possibilità di verificare che, pur con tutte le rigidità che caratterizzano l’assetto organizzativo delle scuole e pur con i pochi margini di flessibilità e di sperimentazione didattica realisticamente possibili nelle nostre aule, la dimensione della personalizzazione dia forma a scelte didattiche e metodologiche, che si parli di letteratura italiana o di arte, di matematica o di grammatica, di costruire una lezione con un podcast o utilizzando il metodo della disputa guidata.
Il confronto nei gruppi – che andrà oltre la conclusione della Convention – è significativo anche per un aspetto non secondario: spesso i tentativi di innovazione rimangono esperienze isolate, di insegnanti di buona volontà, a volte anche guardati con sospetto dai colleghi.
Pensare, invece, di “mettersi insieme”, di creare collaborazioni, di imparare reciprocamente, anche di correggersi, è davvero intraprendere la strada della creazione di quelle comunità di pratiche tanto auspicata quanto poco praticata.
E proprio dell’importanza della costruzione di comunità professionali come fattore decisivo per sostenere la passione, la creatività, l’impegno del singolo insegnante, per evitare quella “solitudine” che spesso è alla base della demotivazione e persino del burnout, si è parlato con Francesco Cassese, titolare di Miror Consulting, società che si occupa di change management, leadership e innovazione, di creare cioè le condizioni per lo sviluppo delle persone, dei processi organizzativi e della cultura aziendale.
Il confronto con un punto di osservazione per certi aspetti estraneo alla scuola si è rivelato molto provocante e illuminante, perché la scuola è un’organizzazione complessa, anche se con una forma particolare, diversa da quella delle aziende; ma, come in tutte le organizzazioni, è importante fare i conti con le dinamiche che ne caratterizzano la vita e il funzionamento.
È possibile individuare degli elementi distintivi, di originalità, di chi pensa alla scuola e al lavoro degli insegnanti dentro la scuola in una prospettiva educativa?
L’attenzione al valore della persona, alle sue esigenze come fattore determinante di qualsiasi processo di cambiamento; il richiamo ai fondamenti ideali che determinano la postura di fronte alle scelte didattiche ma anche di fronte alle sfide che interrogano la scuola; l’attenzione ai criteri che possono guidare iniziative innovative nel lavoro per non essere vittime di mode passeggere: sono stati solo alcuni, ma tra i più significativi, elementi evidenziati come fattori di questa “originalità”.
Una parola importante, questa, più volte evocata anche da Valerio Capasa nel suo recital serale, costruito su canzoni e testi di Giorgio Gaber e Pier Paolo Pasolini, vista come sfida all’omologazione del pensiero che rischia di caratterizzare la nostra epoca, come profeticamente avevano anticipato.
Come ogni anno, la Convention non è il punto di arrivo, ma piuttosto un’occasione per continuare il compito educativo nella scuola: non può che essere così, peraltro, dopo aver letto la Lettera apostolica di Leone XIV, Disegnare nuove mappe di speranza, con quel forte richiamo alla responsabilità dei singoli, ma anche dei corpi intermedi, di fronte alle nuove sfide del nostro tempo e alla necessità di non “separare il desiderio e il cuore dalla conoscenza”: significherebbe spezzare la persona.
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