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Home » Educazione » Didattica » SCUOLA/ “Università, il funerale della letteratura comincia dove si preparano i prof”

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SCUOLA/ “Università, il funerale della letteratura comincia dove si preparano i prof”

Gianfranco Lauretano
Pubblicato 10 Giugno 2025
Una antica edizione illustrata della Divina Commedia di Dante Alighieri (Ansa)

Una antica edizione illustrata della Divina Commedia di Dante Alighieri (Ansa)

Se nella scuola la letteratura non appassiona e non funziona, i colpevoli del mancato rinnovo di un canone obsoleto stanno certamente in università

I recenti articoli di Marco Ricucci e Carlo Bortolozzo sull’insegnamento dell’italiano, pubblicati sul Sussidiario, pongono interessanti stimoli di riflessione su aspetti basilari. Da un lato si critica l’uso, a scuola, della storia della letteratura attraverso “un canone trasformato in reliquia”; dall’altro si fa notare che “comprensione del testo, scrittura, capacità di argomentare (…) sono le vere emergenze educative”; da qui la necessità di svecchiare i programmi per non accrescere la distanza tra scuola e mondo reale, soprattutto per smettere di ignorare “la realtà concreta degli studenti a cui si rivolge”.


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Che posto deve avere, insomma, la letteratura nella scuola e, alla fin fine, nella società? Cosa ce ne facciamo in un mondo che, come viene dichiarato, è cambiato dai tempi in cui i programmi furono fissati? Sono domande che si pongono quotidianamente tantissimi insegnanti di discipline letterarie, tanto più se insegnano in istituti tecnici: che fare?


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Il primo aspetto completamente condivisibile riguarda la storia della letteratura, ed è vero: sarebbe ora di piantarla di insegnarla, aggiungendo addirittura che ciò non vale solo per i tecnici, ma anche per i licei. Chi minimamente conosce la storia della scuola sa che l’insegnamento della letteratura risponde a una domanda che ci si pose il mattino dopo l’unità d’Italia, fatta la quale occorreva fare gli italiani. Dove trovare i pensieri, le emozioni, i valori, la lingua di questi fantomatici italiani?

La risposta fu: nella storia della letteratura (per questo parliamo una lingua sdoganata nel Trecento da giovani poeti che a Firenze scrivevano poesie d’amore). Dal 1861 di acqua ne è passata, ed ha ragione Ricucci quando afferma che occorre “accettare che l’insegnamento della letteratura deve essere strumento di crescita culturale, non rito identitario”.


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Ma di fronte a questa evidente necessità, assistiamo a un blocco generale, che dal ministero scende fino all’ultimo docente incaricato. Ogni tanto qualcuno ci mette una pezza, un ministro o una ministra aggiungono, ritagliano, cancellano materie, programmi, valutazioni, e il baraccone va avanti da sé, in un caos che tra poco diverrà tsunami. E poi ci sono alcuni evidenti ostacoli alle giuste istanze di cambiamento che queste opinioni esprimono.

Ci si potrebbe appellare alla buona volontà dei docenti e a quel residuo di libertà di insegnamento evocato da Bortolozzo nel suo articolo, là dove ricorda esperienze in atto e dice che le maglie dei programmi non sono poi così strette. Ciò, però, cozza con limiti istituzionali imposti: ad esempio, gli esami di maturità finiscono sempre sugli stessi autori (quelli del canone-reliquia); le misurazioni, le prove Invalsi e tutto l’assurdo armamentario pseudo-oggettivo della scuola, idem, e alla fine… chi me lo fa fare?

Il secondo ostacolo sono gli insegnanti stessi. A fronte di una buona percentuale che continua tutta la vita a fare ricerca e ad aggiornarsi (diciamolo: sono coloro grazie ai quali la scuola non è ancora crollata), ce ne sono tanti che non leggono niente, non si formano, ma si sono adagiati su quanto appreso all’università, in un tran tran statico e asfissiante. Provate a chiedere a costoro i nomi di qualche poeta o narratore italiano contemporaneo.

Non dimentichiamo, infine, che a scuola ci sono insegnanti che si fanno fare frasi offensive sulla figlia del Presidente del Consiglio dall’intelligenza artificiale e poi, dopo averla pure postata sui social, rimangono al loro posto, magari ammirati da un’opinione pubblica sempre più becera. Dovrebbero insegnare la comprensione del testo, costoro?

Ma il buco nero è l’università, lì dove gli insegnanti si formano. Qui gli articoli del Sussidiario sono fin troppo concilianti. Il fatto è che nessuno sa bene come si insegni la letteratura all’università, se non i poveri studenti che se la devono sorbire. Certamente, come si fa notare, occorrerebbe riflettere sulla didattica, sul modo di proporre la letteratura ai ragazzi, oltre che su quali testi; ma chi, ma dove si fa questo lavoro, eccetto qualche striminzito esame di didattica?

I docenti universitari di materie letterarie sono, nella stragrande maggioranza, un branco di snob ignoranti. Non sanno dove mettere le mani per rivedere il canone, lo dicono essi stessi: potrei citare decine di articoli e lezioni di livello accademico che affermano che l’epoca letteraria che stiamo vivendo è un caos e che non esistono voci autorevoli che possano riconoscere i valori autentici. Dopodiché mi chiedo cosa li stipendiamo a fare, visto che quelle voci dovrebbero essere le loro.

I corsi universitari di letteratura sono una giungla di filologia, astruse compilazioni di tesi e tesine, speculazioni astratte su autori-non autori, modernità e post-modernità, un dedalo di regole formali, una proliferazione di spulciature metriche per dire che la metrica è morta, che l’idea della forma, continuata e contestata dalla letteratura di tutti i tempi, semplicemente non c’è più. E costoro dovrebbero rinnovare i docenti?

Si potrebbe iniziare, almeno, dal distinguere i percorsi di Scienze della formazione, dove si educano i nuovi docenti, da quelli più filologici, la facoltà di Lettere vera e propria (se esiste ancora: oggi tutte le facoltà hanno la parola “scienza”), dove lasciare qualche topo di biblioteca a disquisire della “querelle tra classicisti e arcadi”, se proprio non hanno niente di meglio da fare.

E forse bisognerebbe anche piantarla di tenere un giovane cinque anni in formaldeide universitaria a studiare sfilze di inutili materie per fare magari l’insegnante alla scuola dell’infanzia! Tre anni non bastano?

Il discorso si farebbe lungo. La letteratura, d’accordo con Bortolozzo, va comunque salvata, perché cosa c’è di più adatto a educare alla comprensione del testo di opere che la tradizione ci ha consegnato perché altamente artistiche?

Nulla di meglio del bello. Basterebbe formare gli insegnanti in questa direzione e considerare la letteratura per quello che è: il deposito prezioso, drammatico ed elegante dell’anima di un popolo e di una lingua, sfrondando tutto ciò che è maniera ed esperienza datata, perché legata a una storia che non c’è più. Quelli che dovrebbero preparare questi cambiamenti, dai dirigenti agli accademici, sono però i più lontani di tutti dalla realtà della lingua, della scuola, della cultura di un popolo e dei suoi docenti malpagati e lasciati soli.

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