29 aprile 1975: Sergio Ramelli, 18 anni, militante della sezione giovanile del Movimento Sociale Italiano di Milano, muore in ospedale dopo un calvario durato 40 giorni. Era stato aggredito sotto casa da un commando di aderenti al servizio d’ordine di Avanguardia Operaia. Sono passati 50 anni. Con Aldo Brandirali, ex consigliere e assessore al Comune di Milano, ripercorriamo la storia di quel periodo che fu il preludio agli “anni di piombo”.
Aldo Brandirali, la sua storia viaggia in parallelo con la nascita dei movimenti extraparlamentari in Italia. Ce la racconta?
Nasco a Milano nel 1941. Mio padre Romeo, partigiano, era segretario della sezione del Partito Comunista Italiano (Pci) di piazza Cantore a Milano nel 1945. Dopo varie esperienze lavorative vengo eletto, nel 1962, nella segreteria nazionale della Fgci (Federazione Giovanile Comunista) ma la lascio, in aperto contrasto col partito e fondo, nel 1968, l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti), un’organizzazione politica di tendenza maoista che aveva anche un suo giornale, Servire il popolo. Tra le militanti dell’organizzazione c’era anche Teresa De Grada, figlia di un comandante partigiano, che poi diventerà mia moglie. Nel dicembre 1975 decido però di uscire dall’organizzazione che poi verrà sciolta. Tutto il discorso marxista-leninista non reggeva, la scelta extraparlamentare finiva con l’estremizzare a tal punto il senso dell’azione che si rischiava il passaggio alla violenza. Sono stato facile profeta.
Quali aspetti differenziavano l’Unione dei Comunisti Italiani rispetto ad altri movimenti dell’epoca, come Avanguardia Operaia o il Movimento Studentesco?
Volevamo essere più vicini al popolo. La “mia gente” era il focus, era il mio pensiero costante.
Era una sorta di comunità comunista?
Sì, c’era la collettivizzazione e qualche gruppo viveva anche in una comune. Ma non era questa la base dell’appartenenza.
Qual era l’idea di fondo dell’organizzazione?
La critica alla concezione del comunismo. Per essere dalla parte del popolo, non della mia “classe” sociale.
Come ha vissuto la vicenda Ramelli?
Male, non avrei mai approvato una violenza del genere. Mai. È stato uno dei motivi che ci hanno portato fuori dal comunismo. Io e mia moglie.
Anche per l’uscita dall’Unione dei Comunisti Italiani?
Sì, proprio nel 1975. Quando ho visto che alcuni nostri militanti stavano diventando terroristi. Non lo potevo sopportare. Ho provocato lo scioglimento dell’organizzazione. Avevo compreso che c’era una spirale di violenza di cui non volevo far parte.
Poi cosa successe?
Cominciai a riflettere quanto fossi contrario alla violenza. E questo mi mise in crisi. Non sono mai stato propenso a schierarmi. Volevo solo servire il popolo. Non essere contro. Ho quindi sentito il bisogno di approfondire le domanda che mi ponevo: “Perché questa violenza? Perché tanta cattiveria?”. Per questo ho voluto incontrare don Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. Sentivo che c’era un “Mistero” da chiarire. Mi sono fatto delle domande più profonde, sul senso della vita. E gli ho chiesto aiuto.
Un incontro decisivo per la sua vita.
Certo, Giussani ha voluto incontrarmi dalle suore di Martinengo, a Milano. Mi ha fatto sedere alla mensa dei poveri e mi ha guardato negli occhi. Di colpo mi sono convertito. Ho capito che il mio era un problema religioso. Era la presenza di Cristo che mi interpellava. E ho detto sì.
(Angelo Frigerio)
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