In principio era il sushi… Sì, forse in principio lo era, quantomeno in Giappone, ma ora è di casa ovunque, se è vero, come è vero, che questa singolarissima preparazione giapponese dalla Terra del Sol Levante (da non confondere con la Riviera di Ponente) ha preso il largo e ormai è consumata avidamente in tutti gli angoli del mondo, seppure, essendo sferica, la Terra non dovrebbe avercene. Che avete capito? Di angoli, mica di sushi!
Sgombriamo subito il campo dell’insipienza, che come un serpente si annida nei nostri stomaci ignoranti. Che ne sappiamo veramente del sushi? Al contrario di come la stolta tradizione occidentale ce lo presenta, non è un semplice vassoio di pesce crudo combinato con il riso in un effetto visivo variopinto e multicolore. Nossignore! Si tratta di una tradizione culinaria millenaria, una raffinatissima pietanza a base di riso aromatizzato all’aceto, al quale viene solitamente abbinato il pesce. E fa una bella differenza!
Il nome originario di sumeshi non è giunto sino a noi, ma fa riferimento ai tre componenti fondamentali di cui sopra (su=riso, me=aceto, shi=pesce). In alternativa c’è il sulishi (per coloro che all’aceto preferiscono il limone) o il subishi (per i coraggiosi che amano la cucina nippo-valtellinese, dove riso e pesce si sposano con il bitto), per tutti gli altri e per gli amici, semplicemente sushi.
Perciò è fondamentale considerare che anche in questo piatto è il riso a farla da padrone, come si evince dalla tradizione, della quale fa fede un antichissimo proverbio orientale, che recita: “Il riso abbHonda nella bocca dei giapponesi”.
Un po’ di storia. Approfonditi studi del biofisico norvegese Semifinus Arboriutsen, che si è laureato con una tesi dal titolo “Come pulire il Vialone nano” alla prestigiosa università indiana di Basmati, indicano come in Giappone già quasi due millenni fa l’uso del riso fosse un rito per conservare il pesce. Una parte del prodotto ittico pescato veniva prima pulito (pulishi), indi sottoposto a lieve salatura (salishi) e infine posto in appositi contenitori (inserishi), mantenendo così una lunga conservazione naturale (custodishi); l’altra parte veniva conservata nientemeno che nelle risaie, dove il pesce non solo rimaneva fresco, ma restava vivo (ocio-ke-sgushi). Il riso era venduto al dettaglio (mini-gushi) e con il linguaggio poetico tipico di quelle zone denominato “ai frutti di mare” (mollushi). Queste modalità esclusive di conservazione permettevano persino agli abitanti del Monte Fuji (con i suoi 3.776 metri, il più alto di tutto il Paese) di gustarne la freschezza. Ancora oggi denominano la pietanza semplicemente “shi”: Chissà perché…
Furono, poi, i monaci buddisti a istituire la “grande scuola di preparazione del sushi”. Il percorso iniziatico per diventare Grande Maestro (Masutā) comprendeva tre livelli di istruzione: il primo, chiamato Giù-Shi-Masutā (Basso Maestro di Sushi) era una sorta di MasterChef ante litteram con rare eliminazioni; il secondo, denominato Mez-Shi-Masutā (Maestro di Sushi della Terra di Mezzo), era equivalente a un diploma di cucina, perciò assai selettivo; il terzo e più importante, il cosiddetto Su-Shi-Masutā, dava diritto al più alto titolo onorifico, ma soprattutto a un ingresso mensile gratuito presso la Kirishima-Yakult, una catena di “all you can eat” istituita da una già allora famosissima azienda produttrice di yogurt.
L’arrivo in Occidente. La leggenda narra che l’arrivo della specialità può essere a buon diritto datata 1953, anno in cui, e lo riportano persino i giornali americani dell’epoca, il principe Akihito e la moglie, la principessa Akirestho (che poi onomatopeicamente prese qualche tempo dopo la residenza e la cittadinanza statunitense), lo offrirono agli ospiti del ricevimento all’ambasciata giapponese di Washington.
Sushiquette. Sì, perché anche il sushi ha un suo proprio galateo, il cui rispetto è necessario almeno come usare le tradizionali bacchette, con le quali, non essendo magiche, dovrete fare veri e propri magheggi per portare il prezioso cibo alle vostre fameliche fauci.
Perciò non va mai dimenticato che ogni boccone di sushi e sashimi (che stanno tra loro come il pollo alla faraona) è un piccolo capolavoro: non va mangiato con distacco e sufficienza (ghermishi), ma con attenzione e ammirazione (stupishi), che non devono sconfinare in un volgare atteggiamento parabulimico (inghiottishi), per il lavoro svolto dall’itamae (abbreviativo di ITAlian MAEstro, cioè sushi chef italiano, spesso napoletano). Si ricordi, inoltre, che la salsa di soia non va mai versata sui cibi. E che non sostituisce neppure il Sauvignon o il Pinot Grigio.
Anniversario. Si festeggia ogni 18 giugno la Giornata internazionale del Sushi, San Su-Shi, da non confondere con San Suu Kyi, strenua paladina dei diritti civili in Birmania, insignita del Premio Nobel per la Pace. E su questo non c’è niente da ridere, semmai da alzarsi in piedi per il rispetto che… sushita!