Sondaggio giustizia: c’è tanta voglia di cambiamento (70% a sinistra), fiducia ai minimi. Il 96% chiede che i magistrati rispondano dei loro errori
C’è un dato che racconta meglio di altri lo stato d’animo del Paese: la fiducia nella giustizia è ai minimi storici. È la fotografia scattata dall’ultimo sondaggio curato da AnalisiPolitica e commentato per noi da Arnaldo Ferrari Nasi, sociologo e sondaggista.
“Non è più una questione di partiti, ma di identità civica” spiega. “Le persone si chiedono se il sistema sia ancora in grado di difendere chi ha ragione, non chi ha potere. La fiducia è bassa, ma la voglia di cambiamento è fortissima. E questo, paradossalmente, è un segno di speranza”.
Ferrari Nasi smonta certezze e rivela quanto il Paese sia più lucido – e più severo – della sua classe politica.
Ferrari Nasi, partiamo da un dato che colpisce: la fiducia nella giustizia resta bassissima.
È così. Ed è un dato stabile, non episodico. La fiducia oscilla tra il 25% nell’area di destra e il 50% nella sinistra. Significa che metà del Paese non si fida di chi amministra la legge. È un segnale grave: parliamo di uno dei tre poteri fondamentali dello Stato. Se il cittadino dubita dei giudici, si rompe un pezzo di quel contratto invisibile che tiene insieme una democrazia.
Eppure, quasi tutti chiedono una riforma profonda. Non è una contraddizione?
No, è un riflesso di realismo. Oltre il 90% degli italiani, in tutte le aree politiche, ritiene che la giustizia vada riformata. Anche nella sinistra, più fiduciosa, siamo sopra il 70%. È un consenso che non si vede spesso nel nostro Paese. Significa che la gente non vuole distruggere l’istituzione, ma renderla credibile. Il cittadino medio non è un giurista, ma percepisce che “qualcosa non funziona”: tempi lunghi, decisioni altalenanti, sentenze incomprensibili. La giustizia, agli occhi degli italiani, è diventata un labirinto.
In altre parole, più che riforme ideologiche servono riforme percepibili?
Esattamente. La politica parla di equilibri costituzionali, il cittadino pensa a una causa che dura tre anni per un condizionatore in facciata. Le persone giudicano la giustizia dall’esperienza concreta, non dai principi astratti. E quando l’esperienza è negativa, la fiducia evapora.
Nel sondaggio c’è un altro dato clamoroso: oltre 9 italiani su 10 chiedono che i magistrati rispondano dei propri errori.
Lo chiede dal 90% al 96% degli intervistati, praticamente un consenso unanime. È un risultato straordinario, e direi anche indicativo del momento che stiamo vivendo. E parliamo di un Paese che su quasi tutto è diviso. Questo ci dice due cose: la prima è che gli italiani non sopportano più l’idea dell’impunità, a nessun livello; la seconda è che chiedono un principio di responsabilità condiviso. Non si tratta di punire, ma di ripristinare un equilibrio etico. Chi amministra la giustizia non può essere percepito come “intoccabile”.
In effetti, anche a sinistra le percentuali sono molto alte.
Sì, e questo è forse il dato più sorprendente. Nelle aree progressiste, storicamente più sensibili all’autonomia della magistratura, più di 7 elettori su 10 si dicono favorevoli a introdurre forme di responsabilità effettiva. È la prova che non è più un tema di schieramento: è diventato una questione di fiducia reciproca. Il cittadino non chiede vendetta, chiede coerenza. È la differenza tra un sistema autorevole e un sistema autoreferenziale.
Un altro tema che divide molto meno di quanto si creda è quello della magistratura politicizzata.
Sì, perché ormai è una convinzione radicata anche dove non te lo aspetteresti. A destra le percentuali sfiorano il 90%, ma anche al centro e nel centrosinistra restano intorno al 50%. Significa che la percezione di un legame tra potere giudiziario e politica è diventata patrimonio comune. Possiamo discutere se sia fondata o meno, ma resta il fatto che per oltre metà del Paese la giustizia non appare neutrale. E la fiducia, una volta incrinata, è difficilissima da ricostruire.
Questa domanda di trasparenza spiega anche il consenso verso un organo indipendente che giudichi i giudici.
Sì, e lo confermano numeri davvero notevoli: l’80% degli italiani è favorevole alla creazione di un organismo terzo, distinto dalla magistratura stessa. È un consenso che attraversa ogni fascia politica, compresa quella più tradizionalmente vicina ai giudici. Significa che la fiducia non è scomparsa, ma ha bisogno di garanzie visibili. La gente vuole sapere che esiste un controllo, che non tutto resta “dentro il palazzo”. Non è una richiesta di punizione, ma di trasparenza. In fondo, chi ha il potere di giudicare deve anche accettare di essere giudicato.
Un equilibrio delicato. C’è chi teme che possa aprire la strada a ingerenze politiche.

È un rischio, certo, ma si tratta di capire dove mettiamo il confine tra autonomia e autoreferenzialità. La vera indipendenza si misura nella capacità di rispondere al cittadino, non nel chiudersi a riccio. Il problema non è che la politica voglia “controllare” la magistratura, quanto piuttosto che la magistratura dia l’impressione di non voler rispondere a nessuno. E quando l’autonomia si trasforma in isolamento, la fiducia si sgretola. Gli italiani non chiedono meno indipendenza, ma più responsabilità: sono due cose diverse, e la differenza è sostanziale.
Eppure, quando si parla di separazione delle carriere, il consenso crolla. Come se la gente non la capisse.
Esattamente. È la contraddizione più interessante del sondaggio. Dopo aver chiesto responsabilità e indipendenza, solo un elettore su 2 del centrodestra – e uno su 3 della sinistra – approva la separazione tra magistrati inquirenti e giudicanti. È la prova che la comunicazione politica ha fallito. Il messaggio non è passato. Molti credono che si tratti di una misura punitiva verso la magistratura, quando in realtà servirebbe proprio a rafforzarne l’imparzialità. È una riforma tecnica, ma il linguaggio con cui viene raccontata è politico. E quando si confonde la tecnica con la propaganda, l’effetto è disastroso.
Lei parla spesso di “comunicazione inefficace”. È qui che si gioca la partita della fiducia?
In gran parte sì. La giustizia è un tema complesso e la gente ha bisogno di chiarezza, non di slogan. Ma la politica comunica per contrapposizioni: “pro o contro i giudici”, “riformatori o conservatori”. È un linguaggio che semplifica, e semplificando disorienta. La giustizia, invece, ha bisogno di parole pazienti, di spiegazioni. Se si annuncia una riforma e non si sa dire in che modo cambierà la vita quotidiana delle persone, non stupisce che la metà del Paese resti diffidente. Le riforme non devono suonare come sentenze, ma come impegni comprensibili.
In altre parole, l’opinione pubblica sembra più matura della sua classe dirigente.
Sì, e non è un paradosso. Gli italiani sono più pragmatici di quanto la politica creda. Non si fanno illusioni, ma neppure si abbandonano al cinismo. Vogliono vedere risultati concreti: cause più rapide, pene più certe, decisioni più chiare. Non chiedono miracoli, chiedono coerenza. È curioso: la società, che la politica dipinge come “sfiduciata”, in realtà ha un senso di giustizia molto forte. Solo che non lo riconosce più nei meccanismi istituzionali. È un popolo disilluso, non rassegnato.
E i “non collocati”, quel 15-20% che spesso decide le elezioni?
Sono la cartina di tornasole del Paese reale. Non si definiscono né di destra né di sinistra, ma partecipano. Spesso votano, discutono, seguono le notizie. Semplicemente, non si fidano più delle appartenenze. Nei nostri dati mostrano una combinazione interessante: scarsa fiducia, ma un alto senso di giustizia personale. Si indignano davanti a una sentenza percepita come ingiusta, ma non per partito preso. È un elettorato libero, che ragiona in termini etici prima che politici.
Lei dice che la giustizia è un tema etico, non partitico. Può chiarire?
La giustizia tocca la sfera più intima delle persone. Quando si subisce un torto, non ci si rivolge a un ministero, ma a un giudice. E quel giudice rappresenta lo Stato. Non importa da dove venga o che idee abbia: in quel momento è la misura del Paese. Per questo la giustizia è, prima di tutto, un fatto di coscienza civile. Se il cittadino non si sente ascoltato, non pensa che il sistema sia sbagliato, pensa che sia lontano. E questo è peggio. La distanza genera disamore, e il disamore delegittima tutto.
Se dovesse riassumere in una frase l’umore del Paese?
Direi che gli italiani non si fidano dei giudici, ma credono ancora nella giustizia. E questo fa tutta la differenza. La fiducia è bassa, ma non è scomparsa. C’è una speranza che resiste, ed è quella di vedere finalmente un sistema che funziona. Non è rabbia, è desiderio di ordine morale. Gli italiani vogliono che le regole valgano per tutti, anche per chi le applica. È un segno di civiltà, non di sfiducia. Se la politica saprà capirlo, avrà un’occasione rara: restituire dignità a uno dei pilastri della nostra democrazia.
(Max Ferrario)
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