Meloni ha incontrato Rutte. La NATO vuole portare la spesa militare al 5% del Pil. Un impegno devastante per le nostre tasche
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ne ha parlato con il segretario generale della NATO Mark Rutte in visita a Roma, ma sarà anche il tema dell’incontro annuale dell’Alleanza Atlantica del 24-25 giugno all’Aja: la spesa militare dei Paesi europei, almeno quelli che fanno capo al Patto Atlantico, dovrà aumentare al 5% del Pil.
Rutte ha ribadito che all’interno di questa quota il 3,5% sarà per la difesa vera e propria e l’1,5% per la sicurezza, ma al di là delle percentuali ciò che conta, come spiega Massimo D’Antoni, professore di scienza delle finanze all’Università di Siena, è che questo livello di spesa, che diventerà una voce fissa del nostro bilancio, cambierà notevolmente il modo di affrontare la spesa pubblica, con il rischio di una forte contrazione del welfare.
Insomma, sarà un aumento che, anche se portato a compimento entro dieci anni come chiede l’Italia, peserà notevolmente sul bilancio dello Stato e sulla vita della gente.
La NATO ci chiede di spendere il 5% del PIL per la difesa, anche se poi l’1,5% andrebbe alla sicurezza. Che ricadute può avere sul nostro bilancio e sui servizi che lo Stato garantisce?
Il 5% è tantissimo, anche ridotto al 3,5% stiamo parlando di livelli di spesa che pochissimi Paesi hanno. A questo livello ci sono solo gli USA, che nel panorama internazionale, come spesa militare, sono superati solo da Israele. Gli altri Paesi, anche quelli con un livello di spesa sopra la media, sono al 2% o poco più. Mi riferisco all’Europa, comprese la Francia e la Gran Bretagna, che nella difesa hanno sempre speso più degli altri. Stiamo parlando di un impegno difficile da prendere sul serio, a meno che a questo punto non si sia tutti convinti di doversi impegnare realmente in qualche conflitto militare. I numeri di cui stiamo parlando sono inverosimili, anche se negli ultimi due anni c’è stato un aumento abbastanza significativo della percentuale di spesa in molti Paesi europei.
Prima che si fissasse il 5% come nuovo obiettivo, molti governi hanno cercato di uniformarsi al 2%, il precedente obiettivo NATO. Cosa significa questo trend di crescita?
Probabilmente, alla luce della guerra in Ucraina, la maggior parte dei Paesi europei si era avvicinata al 2%, con l’eccezione della Spagna e dell’Italia. Già quando si parlò del 2% mi ponevo la domanda di come si potessero trovare 10 miliardi in una situazione di finanza pubblica come quella italiana. Se poi dobbiamo tirarne fuori altri 30 per raggiungere il 3,5%… Bisogna tenere conto della clausola di salvaguardia suggerita da von der Leyen, scorporando questa spesa dal calcolo del deficit, ma va bene per Paesi che non hanno un problema oggettivo di debito. Noi non possiamo impunemente fare altri 30 miliardi di deficit autorizzato dall’Europa e sperare che non abbia effetto. Sempre deficit è, prima o poi dovremo pagarlo.
A cosa potrebbe portare un’impostazione del genere?
Tenendo conto del vincolo sull’indebitamento, è molto semplice arrivare alla conclusione che si devono tagliare altre spese. Si inciderà direttamente sulla vita delle famiglie. Il problema è che non c’è rimasto molto da tagliare. Quella delle pensioni è una spesa elevata, ma non parliamo di pensioni ricche: non si possono ridurre i redditi di persone che non hanno molte alternative a quella entrata. Lo stesso discorso vale per la sanità. Quanto agli ammortizzatori sociali, non sono così generosi da poterli diminuire. Nell’istruzione, poi, siamo già il fanalino di coda. Non saprei proprio immaginare dove si possa tagliare.
Non c’è soluzione?
È la solita coperta corta. Se anche il governo riesumasse il proprio atteggiamento critico verso i vincoli europei e chiedesse di fare deficit oltre i livelli previsti sulla spesa militare con l’autorizzazione di Bruxelles, metterebbe a rischio la finanza pubblica.
Diluire l’impegno in dieci anni, come chiede l’Italia, cambierebbe qualcosa?
Stiamo parlando di un livello di spesa che, una volta raggiunto, si manterrà ogni anno. Non è una spesa una tantum. C’è proprio una rimodulazione della composizione della spesa pubblica. A un certo punto, o aumenteremo permanentemente il livello delle entrate, anche grazie alla pressione fiscale, o diminuiremo permanentemente la spesa su altre voci. Stiamo parlando di un livello di spesa che finora era quello della potenza egemone che faceva il poliziotto nel mondo. Non so che aspirazioni abbiamo noi come Italia e come Europa: ci serve effettivamente?
Aumentare almeno dal 2% al 3,5%, cosa significa in termini finanziari?
Ogni mezzo punto di PIL sono 10 miliardi di euro. Per arrivare al 3,5%, visto che adesso siamo al 2%, dovremo spendere 30 miliardi in più. Poi c’è la spesa dell’1,5% per la sicurezza, ma cosa rientra in questa voce? Certo, si potrebbe puntare sugli investimenti per il digitale, per la sicurezza informatica, ma stiamo parlando di cifre, comunque, molto grosse rispetto a quello che spendiamo ora.
Per arrivare subito al 2% del PIL per la difesa abbiamo spostato delle voci di bilancio. Accadrà la stessa cosa anche per le spese ulteriori?
Il modo in cui viene conteggiato il 2% è codificato. Ci sono criteri accettati internazionalmente. Nel bilancio della Difesa ci sta l’Arma dei Carabinieri, che ha inglobato i forestali, ma non è che possiamo dire che i nostri forestali sono spesa militare. In questi casi ci sono delle voci precise di spesa che vengono indicate, quelle che si usano per i confronti statistici europei, e i criteri utilizzati dalla NATO. Qualche maquillage lo puoi fare, ma penso si tratti di erodere qualche decimo di punto di PIL, non di più. Aumentare la spesa militare in questo modo significa cambiare un modello di spesa pubblica. Non so quale governo si prenderebbe la responsabilità di farlo e di affrontarne le conseguenze politiche. Forse questa richiesta è accompagnata da una ridefinizione di che cosa è spesa militare, motivo per cui alla fine l’impegno sarà un po’ più limitato. La realtà è che da qui in poi cambia sostanzialmente la struttura delle leggi di bilancio.
(Paolo Rossetti)
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