Starmer sconfessa la Brexit, la Romania cambia voto per sentenza. La lezione italiana del ribaltone ha fatto scuola
Domenica notte – mentre era in corso lo spoglio del voto presidenziale in Romania – funzionari della Commissione Ue e del governo britannico hanno impostato un “reset” (sic, dal Financial Times) degli accordi che hanno realizzato Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue.
In concreto: nell’oscurità di un fine settimana e quasi senza avvisaglie, un tavolo di tecnocrati inglesi ed europei ha avviato il ribaltone di un referendum popolare, deciso nove anni fa da 33 milioni di cittadini del Regno Unito. È stato riscritto e ammorbidito – nottetempo, in via breve – un pezzo di un trattato di centinaia di pagine imposto a suo tempo principalmente dal governo conservatore neo-sovranista di Londra. Dove Boris Johnson, appena sei anni fa, aveva stravinto le elezioni anticipate inneggiando a Brexit “tutta, subito e per sempre”.
Ora a Downing Street c’è un premier laburista, peraltro già molto debole a un solo anno da un’affermazione elettorale risicata (e subito insidiata dalla destra anti-Ue di Nigel Farage). Keir Starmer non aveva comunque minimamente incluso “Breverse” nel suo programma elettorale: verosimilmente ne ha bisogno ora (su pressione della City) così come non può fare a meno di alimentare la guerra in Ucraina, big business per il complesso militar-industriale britannico.
Starmer si è comunque ben guardato dall’avviare ai Comuni (sede della più antica liberaldemocrazia esistente) un processo strutturato e trasparente di verifica parlamentare di ogni opzione di riavvicinamento alla Ue. Ma è già avvenuto in Spagna che il premier socialista Pedro Sánchez abbia ribaltato la sconfitta elettorale del 2023 grazie a un’amnistia negoziata in semi-segreto con i golpisti catalani del 2017, alcuni tuttora latitanti all’estero.
Che intanto l’esito del voto rumeno configuri un “ribaltone” oggettivo della democrazia elettorale non pare contestabile. A Bucarest è maturata una correzione a 180 gradi del voto di pochi mesi fa, forzata attraverso un uso estremo e discutibile dei poteri costituzionali da parte delle forze politiche “europeiste”. Ed è solo l’ultimo episodio di una lunga serie recente in Europa.
In essa spiccano la controversa decisione della magistratura francese di rendere ineleggibile Marine Le Pen alle presidenziali 2027 (nel 2022 la leader del Rassemblement National era giunta a sfidare il presidente Emmanuel Macron al ballottaggio) e il velato progetto del nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz di mettere fuori legge AfD (secondo partito al Bundestag con un quinto dei seggi, ma già diventato il primo secondo i sondaggi, davanti a Cdu-Csu e agli staccatissimi Spd e verdi, puniti all’ultimo voto).
La cronaca dell’ultimo weekend aggiunge, peraltro, che nel voto in Portogallo si è registrata una netta affermazione del centrodestra. È stato battuto il partito socialista dell’ex premier António Costa, nel frattempo divenuto presidente del Consiglio Ue a Bruxelles nonostante il netto arretramento dei socialdemocratici all’ultimo euro-voto.
In questo quadro può non essere inutile riaprire gli annali, per risalire a quella che ormai è sempre più individuabile come la radice del Grande Ribaltonismo contemporaneo. È stato in Italia – Paese fondatore della Ue – che nel 2011 un governo in carica (di centrodestra, eletto a larga maggioranza tre anni prima, guidato da un premier al suo terzo incarico) sia stato ribaltato come esito di un passaggio complesso, originato in Europa.
La rimozione sommaria di Silvio Berlusconi fu avviata da una pronuncia estremamente severa da parta di un’agenzia di rating di Wall Street, seguita da un attacco al debito italiano (provocato anche da vendite anomale di titoli italiani, anche da parte di grandi banche europee), da un pronunciamento-interferenza del presidente francese e della cancelliera tedesca, sfociato infine in un cosiddetto “salvataggio” da parte della Bce, con il coinvolgimento del presidente italiano designato, Mario Draghi, nel dettare a Roma una pesante austerity e un governo tecnico presieduto da un ex commissario Ue, Mario Monti.
Val la pena di ricordare anche quanto in Italia è accaduto dopo, assai più del ribaltone raccontato come tale nel 2019. È opportuno ricordare che le forze “europeiste” (compreso il fugace tentativo trasformista di Mario Monti) non hanno mai vinto alcuna delle tre elezioni politiche successive. Nel 2013 il candidato premier del Pd – Pierluigi Bersani – dovette farsi da parte a vantaggio di tre altri premier dem (anzitutto Matteo Renzi, un non parlamentare) che poterono però governare per cinque anni solo grazie a un compromesso opaco con Silvio Berlusconi (cioè il premier “ribaltato” due anni prima). Nello stesso contesto maturò prima la riconferma al Quirinale dell’ex comunista Giorgio Napolitano, poi l’elezione del cattodem Sergio Mattarella. Due presidenti fondatori – nel 2007 – del Pd, partito ormai giudicato fallito dai suoi stessi leader.
Nel 2018 il Pd “europeista” fu in ogni caso duramente sconfitto alle urne e M5s consolidò l’avanzata di cinque anni prima. Il forte balzo della Lega – un’altra forza critica con la Ue tecnocratica franco-tedesca – portò alla nascita di un governo “non europeista”, che però venne ribaltato solo un anno dopo, non prima che il voto europeo del 2019 avesse segnato l’ascesa della Lega come primo partito del Paese.
Ma neppure un “governo di perdenti” (per quanto concepito dal Quirinale e nuovamente sostenuto dal Pd a fianco di M5s) riuscì a concludere la legislatura. Con il pretesto di implementare il Pnrr, arrivato in funzione anti-Covid-19, fu chiamato a Palazzo Chigi l’autore stesso del Recovery Plan Ue: Mario Draghi, eurocrate per eccellenza. Alla scadenza elettorale del 2022, tuttavia, la vincitrice annunciata fu Giorgia Meloni, leader della destra conservatrice di FdI, l’unica forza ad aver fatto opposizione ininterrotta a tutti i governi “europeisti” dal 2011 in poi.
Il gioco del Grande Ribaltone continua, con giocate sempre più pesanti. Senza dimenticare che a Washington si è nel frattempo “ribaltato” al potere Donald Trump, che l’autonominato “fronte democratico occidentale” riteneva di aver definitivamente ribaltato nel 2020. È lo stesso fronte che – presumibilmente – conta di resistere-resistere-resistere fino al 2028, nella speranza di assestare un ribaltone definitivo a Trump e a ciò che ormai rappresenta nel mondo. Sarà una coincidenza, ma il downgrade del rating Usa deciso da Moody’s non è parso privo di coloriture politiche (al pari di qualche scrollone recente nei listini a Wall Street).
Quando un politologo come l’italiano Luca Ricolfi parla ormai di una “democrazia limitata” sempre più reale nei grandi Paesi Ue come arma reazionaria delle élite contro “democrazie illiberali” per ora solo presunte, non è escluso che la guerra in Ucraina stia continuando anche per questo motivo. La Francia, sedicente patria della “resistenza democratica”, è paralizzata e in grave crisi socioeconomica e finanziaria, ma il suo presidente appare in fuga costante dall’emergenza nazionale al marketing geopolitico del suo piccolo arsenale nucleare, con la pretesa di avocare a Parigi la guida di un esercito europeo pagato a debito dagli altri Paesi Ue. Questo per continuare la “resistenza europea” alla Russia di cui 500 milioni di europei sono da tre anni le vittime principali in termini di inflazione energetica e di amputazioni del Pil.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.