Se dieci anni fa in Grecia si votò un referendum sull'austerità, perché lo stesso non dovrebbe avvenire nell'Ue per l'Ucraina?
Una notte del giugno 2015 il Premier greco Alexis Tsipras si trovò in una stanza con la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il Presidente francese François Hollande. Gli altri Premier dell’Eurogruppo – fra cui l’italiano Matteo Renzi – erano stati lasciati fuori dalla porta. Il Premier britannico non c’era: Londra era ancora nell’Ue ma non era parte dell’Eurozona. Esclusi dalle decisioni anche i tre tecnocrati della “trojka”: il Presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker e quello della Bce, Mario Draghi, oltre a Christine Lagarde, allora Direttore generale del Fmi.
Merkel presentò a Tsipras una lista di condizioni draconiane per il salvataggio finanziario di Atene da parte dello European stability mechanism. Prendere o lasciare, con la pistola puntata di una “Grexit” imposta da Berlino e Parigi. Il confronto fu a tratti drammatico. Mentre Hollande restò sempre in silenzio, Tsipras finì per togliersi la giacca e chiedere alla Cancelliera se voleva anche quella. Non firmò i documenti sul tavolo.
Tornò ad Atene e chiese immediatamente al Parlamento greco di indire un referendum popolare sulla bozza presentatagli da Merkel e Hollande. La proposta fu approvata con 178 voti contro 120.
A favore furono Syriza (il partito del Premier, espressione della sinistra radicale, fresca vincitrice delle elezioni), Alba Dorata (estrema destra nazionalista) e Anel, forza della destra conservatrice. Contro il vaglio della democrazia popolare furono i partiti europeisti: dalla liberaldemocratica ND al Pasok, storica ma declinante forza socialdemocratica. Sostenevano chiaramente che un ordinario confronto parlamentare fosse sufficiente e nei fatti premevano sul Premier perché accettasse senza condizioni la resa. Anche quando erano evidentemente in gioco la sovranità del Paese e il suo intero futuro.
Il referendum si tenne in tempo reale, dieci giorni dopo il faccia a faccia Merkel-Tsipras. Il quesito era unico: si o no all’austerity franco-tedesca, con i timbri della trojka? Con un’affluenza del 94% i greci si espressero al 61% per il no.
Tsipras non scagliò il risultato contro l’Europa: riprese l’aereo e in otto giorni negoziò un accordo triennale di compromesso, meno punitivo per il suo Paese (contro cui erano principalmente le grandi banche tedesche e francesi creditrici di Atene).
Tsipras si presentò subito con la bozza di intesa al Parlamento greco: dove finì anzitutto sotto attacco da parte del suo stesso partito (furono emblematiche e clamorose le dimissioni del ministro delle finanze Yanis Varoufakis). L’accordo fu alla fine approvato e Tsipras rimase Premier per la sua intera durata. Lo restò fino al maggio 2019, quando Syriza perse il voto europeo e Tsipras chiamò subito elezioni interne anticipate: certo che avrebbero segnato anche la fine (definitiva) della sua leadership nel Paese.
Così ha funzionato, dieci anni fa, la più antica democrazia del pianeta.
Perché sul dossier ucraino – per l’intera Ue di magnitudine superiore a quello del debito per la Grecia nel 2015 – non è pensabile far pronunciare gli europei?
Il Presidente francese Emmanuel Macron ieri è volato a Londra (fuori dall’Ue) per incontrare il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Si è fatto precedere da un uno scoop del quotidiano della City: “La Francia è pronta a garantire 18 miliardi sull’uso degli asset russi sequestrati per riarmare l’Ucraina” (un passo che la Russia considererebbe una dichiarazione di guerra e che gli Usa – leader della Nato – non sostengono, così come al momento gli altri Paesi Ue).
Macron è volato a Londra quasi direttamente da Pechino. La sua improvvisa visita di Stato in Cina si è conclusa in modo grottesco: senza la minima concessione di Xi su alcun fronte. E con Macron che, dall’aereo di ritorno, ha minacciato la Cina di dazi, scimmiottando gli Usa di Donald Trump.
Nelle stesse ore il Parlamento francese sta decidendo sulla manovra 2026 e in particolare sul budget della sicurezza sociale il cui sbilancio potrebbe salire da 25 a 30 miliardi. Il Governo Macron (perché nella Francia semipresidenzialista il leader è il Presidente, non il Premier nominale Sebastien Lecornu) è in bilico.
Macron – che ha davanti a sé un solo anno di mandato e non è rieleggibile – è già stato sfiduciato al voto europeo del 2024. Ha chiamato elezioni parlamentari anticipate ed è stato nuovamente battuto (la sua popolarità nel Paese è scesa all’11%). Ha nominato in 15 mesi quattro Premier: nessuno è minimamente sopravvissuto, nessuno è minimamente riuscito a frenare una crisi finanziaria sempre più grave.
Pericle – che è stato l’inventore della democrazia ad Atene 2.500 anni fa – giudicherebbe la Francia ancora una repubblica democratica?
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