I leader delle due storiche big industriali italiane – John Elkann e Marco Tronchetti Provera – hanno entrambi parlato negli ultimi giorni, di economia e geopolitica. Fiat e Pirelli, nate ambedue alla fine del secolo diciannovesimo, sono divenute giganti attraverso i riarmi nazionali imposti dalle due guerre mondiali del ventesimo, prima di trainare la grande motorizzazione nella ricostruzione-boom, sostenuta in Italia dal Piano Marshall.
Elkann, oggi maggior azionista e presidente di Stellantis, non ha detto moltissimo nella sua attesa audizione di mercoledì scorso in Parlamento. I media hanno riferito per lo più della sua rivendicazione alla Fiat di aver contribuito in misura secolare al Pil italiano. La cosa forse più interessante è giunta da una risposta a Elly Schlein, Segretaria del Pd: appositamente intervenuta per domandargli della crisi del colosso italo-francese sullo sfondo geopolitico.
“Voglio chiedere anch’io a lei di quest’ultima trovata della riconversione del settore dell’auto verso la difesa”, ha domandato Schlein, mentre alla Camera era in corso il dibattito sul riarmo Ue. Per la leader dem l’ipotesi di costruire armi negli stabilimenti di Stellantis in Italia – oggi tutti a passo produttivo ridotto – sarebbe solo “propaganda di Stato che vuole coprire una difficoltà del settore che c’è”.
Questa la risposta di Elkann: “Osserviamo che la Cina e gli Usa hanno un’importante industria bellica e un’importante industria dell’auto. Riteniamo che non sia una scelta tra industria dell’auto e l’industria bellica, questi due paesi ci stanno dimostrando che si possono avere due industrie forti”. Comunque “non riteniamo che il futuro dell’auto sia l’industria bellica. Il futuro dell’auto è legato al fatto che l’Europa e l’Unione europea decidano in termini di politica industriale dove è importante mettere le risorse”.
Per il nipote-erede dell’Avvocato – per una vita filoamericano di ferro, ma anche amico personale di Henry Kissinger, storico pontiere geopolitico – Usa e Cina sono dunque oggi riferimenti geoeconomici di pari peso opzionale: come dimensione di mercato e come potenzialità di supporto finanziario o tecnologico a Stellantis. La postura sembra guardare alle suggestioni ampie di “disallineamento” dell’Ue dall’America verso la Cina: quasi esplicite nel tentativo dei “volenterosi ucraini” pilotato dal capo dello Stato francese Emmanuel Macron, fra l’altro co-azionista di controllo di Stellantis con Exor.
L’iniziativa sta per ora mettendo in discussione Ue e Nato e forse per questo pare aver riscosso un pronto interesse da parte della Cina. Dopo il congelamento europeo della Via della Seta voluto dagli Usa per la crisi ucraina, Pechino sta scorgendo nel fine-guerra un’occasione unica di offensiva strategica. La prospettiva sul tavolo è quella che l’Esercito del Popolo schieri sue truppe e suoi aerei in Europa orientale, forse anche sue portaerei nel Mediterraneo. Un singolare “appeasement” pro Xi e contro Trump e Putin pensato per un’Europa simil-Africa da “Re Macron”, tardo-colonialista in ritiro dal continente nero, ormai ampiamente ricolonizzato dai cinesi.
Che Elkann sia in questo momento più attento a Pechino che a Washington è chiaro fin dallo scorso 5 novembre: quando il presidente di Stellantis si era aggregato a una singolare visita di Stato del presidente Sergio Mattarella, nel giorno del voto presidenziale Usa vinto da Trump. In quella visita Mattarella aveva benedetto fra l’altro la nuova Agnelli Chair for Italian Studies alla Peking University, assegnata all’ex Premier ed ex Presidente della Commissione europea Romano Prodi: un tempo avversario politico-industriale della dynasty torinese, oggi broker di relazioni politico-finanziarie fra Europa e Cina.
Un secondo aspetto emerso con forza nel botta e risposta Elkann-Schlein è il ruolo cruciale assegnato dal tycoon torinese alla politica industriale per il futuro di Stellantis. In concreto, il Presidente (al momento anche Ceo) resta fermo nel chiedere se, quando, come e da chi a Stellantis giungeranno aiuti pubblici di taglia miliardaria.
Finora il Governo Meloni ha negato sussidi nazionali a Stellantis, che li sollecitava per lo sviluppo dell’auto elettrica. La motivazione è stata legata al dubbio mai fugato che i soldi dei contribuenti italiani finissero per finanziare obiettivi diversi dall’occupazione e dalla ricerca tecnologica in Italia. Fino al dicembre scorso le strategie di Stellantis erano nelle mani del manager franco-portoghese Carlos Tavares (ex Psa) e nessuno dimenticava che Exor, holding della famiglia Agnelli, è da tempo fiscalmente ribasata in Olanda. Oggi comunque lo scenario appare in rapida evoluzione.
La transizione green “tutta e subito” è tornata bruscamente in discussione e con essa l’auto elettrica. Al centro del tavolo della politica industriale la Ue ha aperto a tamburo battente il dossier ReArm: sostenuto dalla rivisitazione-lampo del Rapporto Draghi. E la riconversione militare dell’industria auto è già più che un’ipotesi: in Germania la produzione di carri armati Rehinmetall in impianti Volkswagen a rischio chiusura è praticamente già in programma.
Questo verrà finanziato dallo Stato tedesco, nell’ambito di un maxi-stimolo industriale nazionale da mille miliardi in dieci anni. Il futuro Cancelliere Friederich Merz lo ha già negoziato con la Spd (che resterà in coalizione di governo con la Cdu-Csu vincitrice del voto) e anche con i Verdi. Questi hanno dato alla fine via libera all’abbattimento rapido del freno costituzionale al sovra-indebitamento pubblico tedesco.
Fin qui la politica finanziaria e industriale tedesca: che non ha i problemi di rispetto dei parametri Ue che hanno Italia e Francia; e che comunque indica quanto la Germania sia pochissimo “volenterosa” di coordinarsi a livello Ue, dove pure la regista è una ex ministra della Difesa di Berlino.
L’Ue, a ogni buon conto, si è subito arenata su ReArm: lasciando in mezzo al guado anche il Presidente di Stellantis. Il quale verosimilmente contava e conta ancora sull’apertura di un grande sportello centralizzato a Bruxelles: una prospettiva in cui difficilmente l’Italia potrebbe sottrarsi dal contribuire ad aiuti pubblici europei a grandi gruppi europei.
In un quadro concreto, Roma finirebbe per erogare sussidi a Stellantis se a Mirafiori venissero prodotte le armi con cui l’Italia potrebbe adempiere ai suoi impegni nel nuovo euro-sistema di difesa. Il finanziamento – nel format Draghi – avverrebbe in parte con il dirottamento di fondi di coesione Ue (oggi sotto la responsabilità dell’italiano Raffaele Fitto, vicepresidente della Commissione) e in parte con il collocamento presso i risparmiatori italiani di “prestiti di guerra 4.0″ sotto forma di eurobond.
Mentre l'”Agnelli Professor” Prodi si agita a favore del riarmo europeo, la Premier Meloni sta però frenando (lo ha fatto in Consiglio Ue) e Schlein ha detto la sua contrarietà in pubblico direttamente a Elkann. Di tutto, in ogni caso, è prevedibile che Meloni parli in settimana con Macron a Parigi, a lato di una nuovo vertice di “volenterosi”.
Mentre il nipote di due industriali-senatori (uno nominato dal Re, l’altro dal Quirinale) parlava alla Camera, il leader di M5s, il due volte Premier Giuseppe Conte, preparava un sit-in ai cancelli di Mirafiori: luogo mitologico della storia italiana. Conte era accompagnato, venerdì, dal leader Avs Nicola Fratoianni e da Yolanda Diaz, ministra del Lavoro del governo socialista spagnolo.
L’occasione è stata una presentazione “di piazza” del programma di The Left, gruppo europarlamentare in cui i pentastellati italiani si sono da poco uniti a partiti della sinistra antagonista europea come anche la Linke tedesca e Lfi di Jean Luc Melenchon.
“Il riarmo europeo è una trappola”, ha denunciato Conte davanti a Mirafiori: che all’inizio degli anni occupava sotto il marchio Fiat 60 mila fra operai e impiegati per produrre un milione di auto all’anno (con Stellantis oggi sono sono poco più di 10mila per meno di 100mila auto). Attendista su tutto appare intanto il Segretario della Cgil Maurizio Landini, ex leader sindacale dei metalmeccanici italiani. Vicino a M5S anti-riarmista, ma in piazza con Repubblica “euro-riarmista” (edita da Gedi, di proprietà Agnelli) sebbene fianco a fianco con Schlein no-ReArm. Con Prodi e i cattodem polemici soprattutto con lei.
Due giorni dopo l’audizione parlamentare di Elkann, la Verità ha intervistato Tronchetti Provera, Vicepresidente esecutivo e grande azionista di Pirelli. “Serve l’ombrello Usa per difendere l’Ucraina”, ha detto nel titolone a tutta pagina.
Ha sottoscritto il desiderio degli europei di “non essere subalterni” all’America di Donald Trump nella difesa “dei propri valori non negoziabili”; ma ha avvertito di non vedere alternativa al “sedersi al tavolo con Trump e trattare”. Evidentemente su tutto: dai dazi al futuro della Nato, al ridisegno geopolitico complessivo. Nel quadro di una fedeltà atlantica che pare anch’essa poco negoziabile.
Secondo Tronchetti, “la presidente del Consiglio ha dimostrato di avere carattere e determinazione e di imporsi come interlocutrice di livello sulla scena internazionale, avendo ben chiari che quando parliamo di Occidente ci stiamo riferendo a Europa e America assieme”.
E il leader di Pirelli sembra condividere con Meloni anche la preoccupazione per un’escalation riarmista, soprattutto in Europa. “Ci possono essere motivi di inquietudine anche profonda quando si sente parlare con facilità di armi atomiche… oppure quando la Ue affronta il tema del cosiddetto ‘riarmo’ da 800 miliardi. È normale che i cittadini, non solo italiani, siano preoccupati”.
La Pirelli non è più la dioscura autarchica della Fiat nella fornitura di pneumatici: è tra l’altro da anni fornitrice unica dei mondiali auto di tutte le formule. E se la Fiat negli anni ’70 era per qualche anno diventata un po’ libica, la Bicocca è diventata prima un po’ russa e ultimamente parecchio cinese: con l’ingresso di China National Tire and Rubber Corporation come primo azionista con il 37% (Camfin, cassaforte familiare di Tronchetti Provera detiene il 25%). Proprio per questo mentre il conflitto russo-ucraino si prolungava e Mosca si arroccava su Pechino, su Pirelli il Governo Meloni ha esercitato il golden power.
Nel giugno del 2023, i poteri speciali sono stati utilizzati da palazzo Chigi “per la tutela dell’asset strategico costituito da sensori cyber impiantabili nei pneumatici”. Pirelli veniva vincolata a impedire che il socio cinese svolgesse in alcun modo attività di “direzione e coordinamento” nel gruppo. L’Amministratore delegato avrebbe quindi dovuto obbligatoriamente essere scelto fra i quattro consiglieri designati da Camfin e non fra gli otto di provenienza Cnrc. Di qui il ritorno all’impegno manageriale diretto da parte di Tronchetti Provera, mentre Presidente di Pirelli è rimasto il cinese Jiao Jian.
La fase speciale continua tutt’oggi, non senza aver registrato un incidente di percorso: nell’ottobre scorso la presidenza del Consiglio ha aperto una procedura di verifica per una “potenziale violazione della prescrizione di garantire l’assenza di collegamenti organizzativi-funzionali tra Pirelli da una parte e Cnrc dall’altra”. L’esito della procedura non è ancora stato annunciato.
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