L’articolo 40 della Costituzione afferma che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Non dice che è possibile protestare per un mancato rinnovo contrattuale bloccando una delle principali arterie autostradali del Paese. E violando altre leggi.
Se, in un caso elementare, uno scioperante spacca una vetrina non resta un legittimo scioperante e basta. Se il diritto di sciopero in un servizio pubblico monopolista come il trasporto locale (alla cui natura economico-sociale è avvicinabile un’infrastruttura autostradale in concessione) viene esercitato per decine di venerdì di fila, la legittimità di quell’esercizio è come minimo discutibile (lo è infatti già stato e ha prodotto nuove leggi e nuovi “spiriti delle legge”). In una Repubblica “fondata sul lavoro” non contano solo i diritti sindacali e la dignità socioeconomica di alcuni lavoratori, ma anche quelli di tutti gli altri.
L’articolo 17 della medesima Carta, afferma il diritto dei cittadini “a riunirsi pacificamente e senz’armi… Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. È sottolineato “pacificamente” e vengono citati espressamente “motivi di sicurezza” come possibile condizionamento.
Non sembra una visione della manifestazione di dissenso democratico facilmente applicabile, ad esempio, agli attivisti ambientalisti che imbrattano monumenti o – loro pure – ostruiscono a sorpresa tangenziali nelle ore di punta. Nessuno ha dimenticato il G8 di Genova: quando alcuni poliziotti certamente sbagliarono (di grosso), ma non prima che a sbagliare (di grossissimo) fossero i “dissenzienti” antagonisti. E un quarto di secolo dopo le ragioni di “sicurezza pubblica” includono le minacce portate anche in Italia da un mondo in guerra.
Chi qui scrive rivendica il proprio diritto di cittadino a una lettura diretta della Costituzione “più bella del mondo”: legge fondamentale e patrimonio civile di tutti, non solo di giuristi e magistrati, tanto meno di una sola parte politica.
Ogni volta suscita curiosità crescente ritrovare l’approccio “nativo” alla Costituzione – proprio dei giudici conservatori della Corte Suprema Usa – nei politici e magistrati italiani che difendono con le unghie l’intangibilità della Carta italiana del 1948: salvo poi imbracciare puntualmente la stessa Costituzione in ennesime letture evolutive utili alle diverse cause. Non sorprende invece che a farsi ennesimo portavoce di una nuova “resistenza democratica” imperniata sulla Corte sia stato nelle ultime ore un ex Presidente come Enzo Cheli.
La sua denuncia breve e assertiva di una presunta “criminalizzazione del dissenso” per gli incidenti di Bologna – minacciati dal nuovo decreto sicurezza – si è accompagnata al rituale appello a dare “parola alla Consulta” (naturalmente l’ultima). Un’ennesima interpretazione carpiata ed estremista del ruolo della Corte, la cui strumentalizzazione nel dibattito politico-mediatico è ormai strutturale.
Ancora una volta – a sfida di decenni e di tonnellate di testi normativi e di studi giuridici – la lettura testuale dell’articolo 134 della Carta porta a vedere attribuito alla Consulta il giudizio “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”.
Al sestultimo articolo della Carta – fra le garanzie costituzionali – la Corte non viene affatto disegnata come “terza camera”, come una sorta di “Cassazione” di Parlamento e Governo. I poteri di legislazione e di amministrazione esecutiva vengono non a caso disciplinati molte decine di articoli prima, molto estesamente.
Nella Costituzione “così com’è” (quella che Cheli e numerosi suoi colleghi vorrebbero restasse tale) il Governo del Paese non è subordinato a una valutazione di merito costante e insindacabile da parte di soggetti non espressione diretta della sovranità popolare. Solo un’interpretazione della Costituzione ormai ai limiti della distorsione – e invece sempre mascherata dalla presunta esigenza di salvaguardarne una presunta purezza originaria – può pretendere di instaurare in una Repubblica parlamentare un “contro-Governo” della Consulta.
Solo una visione sostanzialmente anti-democratica – tendenzialmente abusiva dello stato di diritto costituzionale – può vagheggiare un “comitato di salute pubblica” che applichi di volta in volta leggi e decreti in versione “saggia, illuminata, autenticamente democratica”: cioè sempre riveduta e opportunamente corretta rispetto a Camere ed Esecutivo; quando non direttamente abrogata, come ad esempio avrebbero voluto i promotori dell’ultimo referendum con il Jobs Act e le norme sulla cittadinanza.
Può darsi che anche Cheli, in cuor suo, cominci a sospettare che non sia più assolutamente fuori discussione la legittimità costituzionale della Corte Costituzionale “nativa”. Anzitutto della sua struttura: nella quale solo un terzo dei componenti è espressione del Parlamento eletto e queste nomine sono sempre più spesso ritardate o paralizzate dall’ostruzionismo delle opposizioni di turno, legato al vincolo della maggioranza qualificata. Un altro terzo è designato a discrezione personale dal presidente della Repubblica in carica (da quasi vent’anni espressione di una forza politica mai maggioritaria alle verifiche elettorali popolari). Un ultimo terzo è appannaggio “separato” dell’ordine giudiziario: di fatto ristretto alle valutazioni personali, corporative e politiche di alcune centinaia di magistrati.
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