Antisionisti-antisemiti: si riaccende il clima delle università USA, a cacciare i presidi sono per primi i finanziatori ebrei degli atenei. Non Trump
La fumata nera di mercoledì sera aveva offerto ai grandi media liberal statunitensi l’opportunità di rilanciare una narrazione di spaccatura del sacro collegio chiuso nella Cappella Sistina. Un quadro in cui i fautori di una continuità forte con Papa Francesco venivano schematicamente rivestiti dei paramenti più squisitamente politici di oppositori di Donald Trump, proiettati sulla scala globale propria della Chiesa cattolica.
La fumata bianca di ieri ha smentito nettamente il racconto di un sacro collegio frammentato, litigioso, geopoliticizzato e lontano dalla sintesi di una nomina cruciale. E il nuovo pontefice, per di più, è un cardinale di origini americane, non catalogabile come anti-trumpiano irriducibile come altre porpore dell’episcopato statunitense. Ma – soprattutto – il conclave rapido ha coinciso con una recrudescenza della “guerra delle università” tutt’altro che estraniabile rispetto all’elezione di un nuovo Pontefice. Perché – ancora una volta – la scintilla dei nuovi disordini nel campus è stata la guerra infinita a Gaza e la questione etnico-religiosa dell’antisionismo/antisemitismo ad esse associata negli scampoli di “culture war” oltre Atlantico. Tanto che ad interessarsi alla papabilità del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, è stato lo stesso New York Times: in chiave di contrarietà sempre più forte dell’establishment culturale israelita Usa per il governo estremista di Bibi Netanyahu.
La cronaca da Manhattan – nelle stesse ore in cui maturava a Roma l’elezione del cardinale Prevost – ha registrato un nuovo raid della polizia alla Columbia University: di nuovo terreno di manifestazioni antisraeliane allorché Netanyahu ha deciso di reinvadere Gaza e di sgombrarla definitivamente di due milioni di palestinesi. Un anno dopo, a sgombrare il campus sul fiume Hudson sono stati gli stessi poliziotti del sindaco afro “dem” Eric Adams. Ancora una volta non inviati da Donald Trump – che all’inizio del 2024 era a mala pena candidato alle primarie repubblicane – ma chiamati dalla rettrice Claire Shipman: la terza in un anno. Come le precedenti, Shipman rischia di cadere vittima della persistente manipolazione politico-narrativa attorno alle università Usa: ora resa più intricata dalla volontà della Casa Bianca di tagliare i fondi federali ai grandi atenei privati sospettate di debolezza nel contrasto all’antisemitismo.
Il “popolo della Columbia” – nel cui corpo docente gli israeliti sono in numero rilevante – resta fortemente critico verso il governo israeliano e la sanguinosa guerra di Gaza. E l’antitrumpismo dominante nel campus appare totalmente coerente con l’avversione per Bibi Netanyahu. Ma i trustees (i rappresentanti dei grandi donatori, fra cui un numero importante di fondazioni ebraiche, che governano di fatto la Columbia e ne designano i vertici) sono invece da sempre intransigenti nel giudicare “antisionista e quindi antisemita” ogni contestazione al governo di Gerusalemme. Considerano i rischi – veri o presunti – per gli studenti ebrei alla Columbia, meritevoli dello stesso “diritto a difendersi” dello Stato ebraico contro Hamas o l’Iran. Missili su Gaza, manette per chi protesta a Manhattan. Non da ultimo, i trustees della Columbia non ci pensano neppure a perdere ingenti finanziamenti federali per difendere una liberta’ di manifestazione anti-israeliana nel “loro” ateneo.
E’ questa porzione della comunità ebraica americana – forse minoritaria in termini numerici ma largamente maggioritaria in termini di potere finanziario, politico e mediatico – ad aver appoggiato la rielezione di Trump: anche per il fermo impegno del presidente repubblicano sul fronte del contrasto all’antisemitismo nei campus. Fino all’ennesimo incidente alla Columbia sotto i riflettori è stata Harvard, ma ancora una volta avvolta da un polverone equivoco.
Pure a Boston – che oggi si autopropone come “santuario” anti trumpiano – sono stati i grandi donatori israeliti a cacciare la presidente Pauline Gay (prima donna afro in oltre tre secoli) perché resisteva alle pressioni a reprimere le marce studentesche antisraeliane. E all’inizio del 2024 Trump doveva ancora raccogliere i primi voti alle primarie repubblicane e pochi scommettevano che avrebbe superato indenne una disparata serie di processi. Sono stati Biden e la sua vice Kamala Harris – donna “non bianca” infine candidata anti-Trump – a voltarsi sempre dall’altra parte quando i “trustee” dei grandi campus hanno fatto strage di rettori (soprattutto di rettrici) perché difendevano la libertà’ costituzionale di pensiero, parola, ricerca, studio e insegnamento. E ora Trump ha solo gioco facile nell’aprire in chiave anti-woke una frattura tutta interna alla comunità ebraica statunitense: fratturata fra liberal e sostenitori di Netanyahu.
Ps: che nella diaspora ebraica internazionale la crisi infinita di Gaza e le sue ripercussioni sulla democrazia israeliana stiano producendo fratture sempre più profonde lo si è potuto cogliere negli ultimi giorni anche in Italia. La senatrice a vita Liliana Segre ha appena pubblicato un libro-intervista, il cui passaggio principale è stato ben segnalato dai media nazionali. “Provo repulsione per il governo Netanyahu – ha affermato la reduce della Shoah – israeliani e palestinesi sono vittime di una trappola di odio”. Una svolta certamente sofferta per la senatrice, che ha sempre denunciato il massacro perpetrato da Hamas, ma mostrandosi sempre pensosa anche sul prezzo di vittime palestinesi della controffensiva israeliana. Mai, tuttavia, si era spinta a un rifiuto aperto delle politiche del governo Netanyahu. Ebbene: le parole di un’icona iper-citata da un vastissimo campo “democratico”, stavolta sembrano essersi scontrate su un muro di gomma. Anzitutto da parte delle più importanti voci giornalistiche della diaspora ebraica italiana: come Paolo Mieli, Maurizio Molinari o Giuliano Ferrara. A condividere la ripulsa di Segre per la guida dello Stato ebraico è intervenuta finora solo la storica Anna Foa: peraltro da sempre quasi isolata nel denunciare “il suicidio di Israele”.
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