Stasera Giorgia Meloni riceve a palazzo Chigi Emmanuel Macron: entrambi alle prese – fra l’altro – con il referendum, il più magmatico e insidioso degli istituti della democrazia elettorale (parlamentare in Italia, semipresidenziale in Francia).
La premier italiana ha detto ieri che domenica prossima si recherà ai seggi dei cinque referendum in agenda, ma non ritirerà la scheda. Un passo che – nel giorno della festa della Repubblica nata da un referendum e officiata dal presidente Sergio Mattarella – ha evidentemente mirato a smussare le polemiche indotte dall’invito del presidente del Senato, Ignazio La Russa, a disertare le urne. E pur tuttavia Meloni non sembra intenzionata ad arretrare dalla sua posizione politica.
I referendum, anzitutto quello sull’abrogazione del Jobs Act, sono dal suo punto di vista una conta-regolamento voluta esclusivamente da una parte della sinistra (anzitutto la Cgil) contro il centro riformista del Pd; e un test elettorale creato artificialmente per tenere alta la pressione mediatica sul Governo in un clima di campagna elettorale anticipata sul 2027.
Più in generale: il referendum abrogativo – un’esclusiva italiana, introdotto dalla Carta del 1948 – appare uno dei tanti esempi di anzianità di un’architettura costituzionale da aggiornare (ma il progetto-premierato – anzitutto – continua a scontrarsi contro il conservatorismo strumentale della sinistra a difesa della Costituzione “più bella del mondo”).
Comunque: il problema dell’Italia di oggi è il mercato del lavoro, non il Jobs Act (con cui la stessa sinistra aveva provato a innovare). E il problema politico-istituzionale, ormai, non è più il quorum ai referendum un tempo di Marco Pannella oggi di Maurizio Landini: è l’affluenza alle elezioni politiche e amministrative, da parte di un elettorato (di un Paese) che mostra di credere sempre meno all’efficienza dello Stato nel rispondere alle sfide quotidiane e all’efficacia stessa della democrazia rappresentativa.
Macron ha dal canto suo con il referendum un problema opposto. Il suo Paese è paralizzato dopo tre voti nazionali (uno europeo e uno legislativo a due turni) che nel giugno 2024 hanno rappresentato nei fatti un maxi-referendum sull’operato del presidente eletto tre anni fa.
Un anno dopo Macron è ancora al suo posto, mentre due Governi non più “macroniani” si sono susseguiti fallendo l’obiettivo di dotarsi una maggioranza parlamentare solida, ma soprattutto quello di risolvere una crisi finanziaria ed economico-sociale ormai galoppante. Tanto che la politica francese si sta interrogando sull’attualità della Costituzione semipresidenziale varata nel 1958-1962 dal Generale de Gaulle a misura di se stesso.
Quella svolta non impedì tuttavia che già nel 1969 – dopo le grandi rivolte di operai e studenti – de Gaulle fu disarcionato da un referendum apparentemente laterale (le autonomie regionali), ma molto vero nell’effetto di spingere il generale-presidente a dimissioni immediate.
Per questa ragione Macron sta continuando a “resistere-resistere-resistere” alle pressioni che ormai gli giungono da ogni settore dell’arco parlamentare perché sblocchi lo stallo-Paese con dei referendum veri, sui contenuti della crisi francese: anzitutto sulla riforma previdenziale che l’Eliseo non è mai riuscito a far avanzare, salvo che “per decreto”, attraverso una controversa procedura costituzionale di aggiramento dell’Assemblea.
Macron – che ha definitivamente escluso il referendum a metà maggio in uno show televisivo di lunghezza putiniana – parrebbe ora intenzionato a un’ennesima capriola politico-istituzionale: nuove elezioni legislative anticipate in autunno, convocate a sua totale discrezione come un anno fa. E già il gioco (opaco) del rinvio raggiunge nel brevissimo periodo l’obiettivo di termine medio: rimanere all’Eliseo fino alla scadenza del mandato, fra due anni. Continuare a vestire i panni del “volenteroso” globale, pronto a tutte le cause e giravolte: dall’Ucraina a Gaza, all’Ue stessa. Naturalmente se e fino a che le guerre si prolungheranno.
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