I leader di un’Europa in crisi profonda si ritrovano oggi a Roma – la città del primo Trattato Ue – attorno a un nuovo Papa non europeo, il primo con cittadinanza statunitense. E fra quanto avvenuto all’ultimo conclave e le tensioni europee delle ultime ore non sembra mancare qualche motivo comune.
L’“incidente di Tirana” è stato raccontato dai media italiani – non da quelli europei – come strappo fra la premier italiana e i suoi colleghi di Francia, Germania e Gran Bretagna, preoccupati di mostrarsi uniti attorno a Volodymyr Zelensky dietro l’Ucraina contro la Russia. È risuonata forte la polemica del presidente francese Emmanuel Macron contro Giorgia Meloni, accusata di diffondere “fake news” sui lavori in Albania.
Nei fatti la premier italiana si è limitata a confermare una nota posizione di merito sulla crisi ucraina (“l’Italia non è disponibile a inviare truppe”), ribadendo la scelta di non unirsi, pochi giorni fa, a una missione degli stessi tre Volenterosi a Kiev.
Nel passaggio specifico, Meloni ha declinato l’invito estemporaneo a partecipare a un’iniziativa improvvisata: una telefonata “volenterosa” al presidente statunitense Donald Trump, al rientro da un viaggio in Arabia Saudita. Un passo palesemente goffo e frustrato, ignorato dai media internazionali perché privo di contenuti e di esiti, salvo quello di rimarcare la totale irrilevanza geopolitica dell’Europa, ignorata da tutti in occasione della ripresa dei colloqui fra Russia e Ucraina in Turchia (Paese alleato di tutti gli europei nella Nato).
Ad ogni buon conto, i “Volenterosi” hanno continuato a sostenere le ragioni della “confrontation” con Mosca, non il cessate il fuoco cui invece punta Trump (e Meloni con lui). La prosecuzione dello stato di belligeranza con Mosca appare d’altronde non solo nell’interesse immediato di Vladimir Putin, ma anche l’evidente puntello esterno a leadership nazionali pericolanti (non diverse da quella di Netanyahu in Israele); nonché il pretesto strumentale per orientare al riarmo le politiche finanziarie e industriali della Ue.
Su di esse il governo conservatore italiano non è chiuso ma è riflessivo, mentre a netto favore di ReArm (“Readiness 2030”) non perde occasione di mostrarsi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, cattolico democratico.
La nuova fotografia della “banda dei Tre” che disturba senza preavviso – e senza mandato – il presidente americano in sorvolo sull’Europa al rientro da Riyad è apparsa in ogni caso grottesca: un punto di minimo storico per quelli che appaiono ormai ex Grandi europei. Senza dimenticare che il premier britannico Keir Starmer si è appena risolto – al pari della Cina – a una tregua separata con Washington sui dazi. Il neo-cancelliere tedesco Friedrich Merz, intanto, è reduce da una clamorosa bocciatura al primo dei voti di fiducia in Parlamento, vedendo subito “azzoppate” le sue chance di leadership sia nella Ue che sul più ampio scacchiere geopolitico.
Se a Tirana qualcuno ha messo in scena un fake questo è stato d’altronde Macron: è stato lui infatti l’inventore della “Comunità politica europea”. Un contenitore geopolitico privo di qualsiasi legittimazione internazionale è stato inventato dall’Eliseo nel 2022 al pari della Lega dei Volenterosi tre anni dopo, nel tentativo di diluire e disarticolare la Ue – facendovi sgomitare le ambizioni di leadership francese – quando quest’ultima stava già entrando in crisi per il rientro prepotente della Nato.
Ma il presidente francese vive ormai solo di giochi di prestigio improvvisati sul versante internazionale, dove mantiene una anomala prerogativa semi-presidenzialista in contrasto sempre più evidente con la maggioranza parlamentare eletta.
A Parigi il governo Bayrou – il secondo in dodici mesi dopo la doppia sconfitta elettorale di Macron in Europa e in Francia a metà 2024 – sta cadendo. Un sondaggio di Le Figaro – dopo un ennesimo e inconcludente show televisivo del presidente – ha certificato che il 71% dei francesi non si fida più di lui e vorrebbe anzitutto un referendum-verità sulla riforma delle pensioni, Intanto il presidente del Medef (la Confindustria francese) ha dichiarato apertamente che il Paese non si può permettere l’attuale “immobilismo” di governo fino al 2027, scadenza del mandato di Macron all’Eliseo.
È in questo scenario che oggi – in un’enclave europea come la Santa Sede – assume ufficialità la leadership di Papa Leone XIV alla guida della Chiesa. Ancora un Papa d’Oltre Atlantico, ancora dopo un conclave-lampo anche e non privo di strascichi polemici, che hanno visto protagonisti principalmente cardinali italiani (europei).
Le ricostruzioni paiono concordi nell’attribuire al cardinale Pietro Parolin – più “vaticano” che italiano nelle vesti di segretario di Stato – il maggior numero di consensi al primo scrutinio. Da subito sarebbe emersa anche la candidatura statunitense di Robert Francis Prevost, sostenuto principalmente dai cardinali di Nord e Sudamerica. A loro si sarebbe unito con decisione Parolin, fondamentalmente portatore degli orientamenti della Curia romana e di una rete globale di cardinali attenti al ruolo della diplomazia vaticana nel futuro della Chiesa.
La mossa “transatlantica” di Parolin – decisiva a favore di Prevost (lui pure da due anni in Curia a Roma) – è parsa dettata anzitutto dalla volontà di garantire un conclave rapido, segno visibile di unità nella Chiesa universale. Ha tuttavia messo fuori gioco altre ipotesi di svolgimento ed esito nella Cappella Sistina. Secondo voci attendibili, consensi non trascurabili sarebbero andati inizialmente anche al cardinale ungherese Peter Erdo, continuatore dottrinale del doppio pontificato (europeo) di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nel toto-Papa mediatico erano stati inoltre citati con insistenza anche i nomi italiani del presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, e del patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, peraltro da sempre in Medio Oriente.
Negli echi polemici del post-conclave non è stato difficile cogliere cenni di sorpresa e delusione da parte di chi prevedeva/auspicava che Parolin e Prevost fossero “papabili” irriducibilmente contrapposti, superabili soltanto da un terzo nome, europeo o più specificamente italiano. Un nome cui in particolare Parolin – cui dopo il conclave sono state cucite addosso le vesti di europeo/italiano “disertore” – avrebbe potuto, forse dovuto essere sensibile, anche se continua a non risultare chiaro per quale ragione “ecclesial-sovranista”.
È comunque avvenuto che un Sacro collegio in cui i 17 elettori italiani erano la maggioranza relativa sui 52 europei e quest’ultimi la maggioranza relativa sui 133 votanti ha finito per eleggere – velocemente e a larghissima maggioranza – il primo Papa americano della storia della Chiesa, vescovo già membro della Conferenza episcopale peruviana. Un nuovo “strappo”, dopo quello del papa argentino, “dalla fine del mondo”.
O forse no. Forse è lacerata al suo interno la vecchia Europa. Un continente incapace di accettare il proprio drammatico invecchiamento rispetto a una globalità non più disposta a tollerare, ad esempio, una Francia che un giorno pretende di condizionare il conclave, l’altro vuole decidere le sorti un pezzo di “terza guerra mondiale” fra Trump e Putin.
PS: è una constatazione – non un giudizio – che i commenti italiani più sferzanti sulla “diserzione” di Meloni siano comparsi sui media del gruppo Gedi, controllato da Exor, holding della famiglia Agnelli. Quest’ultima è prima azionista di Stellantis, mentre il secondo azionista è lo Stato francese. Due giorni fa, reduce dalla missione Trump in Arabia Saudita, il presidente di Stellantis John Elkann ha nuovamente perorato sul Financial Times un deciso cambio delle regole e delle politiche industriali e finanziarie Ue nel settore auto. Nel frattempo Leonardo (azienda controllata dallo Stato italiano) e Rheinmetall – gigante tedesco degli armamenti largamente controllato da fondi d’investimento americani – hanno avanzato un’offerta d’acquisto da 1,5 miliardi per le attività militari di Iveco Defence, sempre facente capo al gruppo Exor. La generalità dei media italiani ha intanto quasi ignorato che lo spread italiano sia sceso nei giorni scorsi sotto quota 100, anche grazie alla prudenza del governo Meloni nell’impegnare l’Italia in piani faraonici di riarmo come quello annunziato da Merz (mille miliardi in dieci anni) oppure quelli voluti a debito europeo dalla Francia, in grave crisi finanziaria pur nel silenzio omertoso della Commissione Ue.
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