Il discorso di Mario Draghi ieri all’Europarlamento è stato l’occasione per un aggiornamento del Rapporto sulla competitività. L’aggiornamento è arrivato dopo la vittoria di Trump, dopo i dazi e le trattative di pace con la Russia che lascerebbero l’Europa da sola in guerra.
In una replica ai parlamentari Draghi ha risposto con queste parole: “Quindi quando mi chiedete cosa è meglio fare ora dico che non ne ho idea, ma fate qualcosa”. Nel 2011 gli appelli a “fare presto” aprirono le porte del Governo italiano a Mario Monti. È un passo indietro necessario perché l’Europa del 2025, eccessivamente dipendente dalla domanda estera e dai commerci, con una domanda interna debole e senza difesa, non è un errore di percorso del progetto europeo, ma il suo compimento.
La scelta è stata quella di comprimere la domanda interna italiana ed europea, sopprimere i salari, aggiustare i saldi della bilancia commerciale e permettere all’industria europea di competere con una valuta artificialmente svalutata. Per fare questo non si doveva investire dentro l’Europa e questo, ovviamente, includeva anche il settore della difesa.
La Germania, sicuramente l’economia più “squilibrata” d’Europa a questo riguardo, era additata come modello da seguire; per decenni ha macinato surplus commerciali e finanziari senza investire né in infrastrutture nazionali, né in armamenti, al punto da presentarsi all’appuntamento con la storia, la guerra in Ucraina, con un esercito ai minimi. L’Europa del 2025, insomma, non è uno sbaglio o il frutto di una distrazione durata trent’anni, ma l’unico epilogo possibile delle regole e del progetto europeo.
Nel discorso di ieri, Draghi ha toccato molti dei punti dolenti che affliggono l’Europa. Ampio spazio è stato dato all’emergenza energetica con l’esplosione dei prezzi dell’elettricità che minaccia l’industria europea. La guerra commerciale è un’altra sfida per l’Ue, così come lo è il tentativo americano di attrarre società europee sulla scorta di prezzi energetici inferiori, deregolamentazione e minori tasse. Per rispondere a queste sfide, spiega Draghi, “dobbiamo agire come se fossimo un solo Stato”. Quindi occorre abbattere le barriere interne all’Europa “standardizzando, armonizzando e semplificando le regolamentazioni nazionali”.
Ovvero bisogna affrontare il limitato coordinamento negli acquisti di gas e nel funzionamento dei mercati energetici e i ritardi nell’installazione di capacità rinnovabile. Serve ricorrere maggiormente a contratti a lungo termine di approvvigionamento dell’elettricità e del gas e massicci investimenti in interconnessioni e reti elettriche.
Draghi fa poi riferimento alla necessità di investire in fonti energetiche pulite e flessibili quando le rinnovabili non producono; impossibile non pensare al nucleare, che però non viene esplicitamente menzionato. Inevitabile poi un riferimento al settore della difesa europea, in cui la frammentazione industriale su basi nazionali impedisce la scala necessaria. Spazio infine per la necessità che ha l’Europa di mantenere in vita alcune industrie strategiche come la chimica e l’acciaio.
Per Draghi è importante che alla Commissione europea venga dato il supporto necessario per finanziare e implementare questo piano. Il fabbisogno finanziario viene conservativamente quantificato in 750-800 miliardi di euro all’anno.
Si potrebbe dire che questa è l’unica cosa certa del piano. Immaginare un’Europa che agisce come Stato unico e investe per rimettersi alla pari degli altri attori globali è una prospettiva affascinante in questo frangente storico; questo è soprattutto vero in quei Paesi, come il nostro, dove “l’Europa” è sempre stata venduta come la soluzione a ogni problema.
Dentro l’Europa ci sono però Paesi che non hanno un’emergenza energetica, un problema di competitività e persino un problema di dazi, e altri che invece ci sono dentro in pieno. Spingere sul settore della difesa in una situazione di fragilità economica, ci ha ricordato settimana scorsa Bloomberg, significa affrontare problemi sociali sotto forma di disordini.
Ci si chiede perché Paesi che in questo momento godono di una situazione energetica privilegiata debbano spingere per un mercato comune sapendo che il prezzo da pagare è la stabilità politica e sociale. Le soluzioni della Commissione europea, intanto, arriverebbero con lo stesso metodo che ha portato l’Europa in questa situazione.
In questo scenario il cambio di marcia produrrebbe iniziative nei settori su cui, su base opportunistica, si possono mettere d’accordo gli Stati europei o su cui gli Stati forti possono imporre le loro agende. Questa è l’inevitabile conseguenza di una governance europea che rimarrebbe molto peggiore di qualsiasi standard di “Stato unico”.
Il rischio vero è quello di caricare una costruzione disfunzionale e squilibrata di altri pesi come se la soluzione per un’automobile che ha una ruota sgonfia e un’altra malandata fosse quella di accelerare per arrivare prima a destinazione. Forse sarebbe meglio, soprattutto se si è deciso che occorre investire in difesa, togliere qualche peso a partire da quelli green imposti a imprese e cittadini, che minacciano di distruggere molto più dell’automotive continentale.
La mancanza di lucidità della “élite europea” emerge proprio nelle condizioni con cui l’Europa si è presentata all’appuntamento che conta; il progetto, nei termini in cui è stato pensato, è fuori tempo massimo. Non si tratta di evocare rotture traumatiche, che non servono a nessuno, ma almeno di togliere pesi inutili piuttosto che di aggiungerne altri; soprattutto se a debito e con la garanzia, involontaria, dei risparmi delle famiglie europee.
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