Va annotata la recente presa di posizione di Leonardo riguardo il rinnovo del contratto dei metalmeccanici
“Dal 2000, la crescita annuale della produttività del lavoro nell’Ue è stata solo la metà di quella degli Stati Uniti, causando un divario di produttività cumulativo di 27 punti percentuali nell’intero periodo. Ma invece di cercare di invertire la tendenza della produttività, abbiamo costruito le nostre politiche del lavoro in modo da adattarle ad essa.
Soprattutto dopo le crisi, abbiamo fatto uno sforzo deliberato per reprimere la crescita dei salari in modo da aumentare la competitività esterna. I nostri salari reali non sono riusciti a tenere il passo nemmeno con la nostra lenta produttività, mentre i salari reali negli Stati Uniti sono aumentati di 9 punti percentuali in più rispetto ai salari nell’area dell’euro nello stesso periodo. Questa repressione salariale ha frenato i consumi e ha rafforzato il colpo alla domanda interna causato dalla politica fiscale restrittiva.
Prima del 2008, la domanda interna nell’area dell’euro cresceva circa allo stesso ritmo degli Stati Uniti. Da allora, la domanda interna negli Stati Uniti è cresciuta a un ritmo più che doppio. Il terzo elemento è consistito essenzialmente nel rinunciare allo sviluppo del mercato interno come fonte di crescita”.
Abbiamo riportato alcuni passaggi cruciali del discorso (definito “Appello all’Europa”) che Mario Draghi ha pronunciato nei giorni scorsi a Coimbra, in Portogallo all’edizione 2025 del vertice Cotec, dove era presente ed è intervenuto anche il presidente Sergio Mattarella.
Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio invita – sovente con toni perentori e allarmati – l’Europa a cambiare prospettiva di crescita economica, soprattutto dopo l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, la cui politica – sostanzialmente – contraria alla globalizzazione e impostata sull’incremento dei dazi è destinata a determinare danni sostanziali alle economie che – come quella italiana – è trainata dalle esportazioni.<
L’alternativa indicata da Draghi – “sui dazi siamo ad una crisi grave con gli Usa” – consiste nel potenziamento del mercato interno attraverso una maggiore integrazione delle economie e degli investimenti del grande mercato europeo come “fattore di crescita”. Un cambiamento di strategia comporta secondo l’ex Premier l’adozione di politiche economiche diverse.
Se la priorità affidata alle esportazioni – in una condizione di bassa produttività – ha imposto “uno sforzo deliberato per reprimere la crescita dei salari in modo da aumentare la competitività esterna”, lo sviluppo del mercato interno non può fare a meno di un rilancio dei consumi e quindi di un incremento delle retribuzioni, sia pure nel contesto di un rilancio della produttività che è la sola condizione per rendere sostenibile una crescita importante delle retribuzioni.
In Italia il tema dei bassi salari continua a essere al centro della polemica politica. Le opposizioni se ne avvalgono per mettere sotto accusa il Governo quando rivendica i buoni risultati sul terreno dell’occupazione. E si impegnano a non tener conto che la situazione è in via di miglioramento, in quanto una brillante stagione di rinnovi contrattuali ha consentito di recuperare – per ora solo in parte – la fiammata inflazionistica dovuta ai noti motivi eccezionali (crisi sanitaria, energetica e delle materie prime, guerra, ecc.) che ha destabilizzato un quadro retributivo definito in condizioni di bassa inflazione.
Inoltre – come scrive la Confindustria nell’ultima Congiuntura flash -, “il proseguire della crescita dell’occupazione fornisce slancio al reddito reale delle famiglie in avvio di 2025, ma il calo della fiducia a marzo-aprile potrebbe preludere a un nuovo aumento della propensione al risparmio”.
Sul fronte delle relazioni industriali è sorto un problema molto serio. Come ha scritto Dario Di Vico, si è “incagliato” il rinnovo dei metalmeccanici, la più importante e blasonata categoria dell’industria con 1,5 milioni di addetti. I sindacati sono riusciti nel “capolavoro” di perdere il tavolo del negoziato e di dover scioperare per recuperarlo. Ma la vera sorpresa di questa vertenza è la dura presa di posizione di Leonardo nei confronti di Federmeccanica, perentoriamente e pubblicamente invitata a riaprire e a concludere il negoziato.
Come racconta Nunzia Penelope su Il Diario del Lavoro, nel testo si legge: “Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà che il perdurare dell’attuale incertezza contrattuale può generare su tutto il tessuto produttivo. Le imprese come Leonardo non possono permettersi di restare in una situazione di stallo, anche perché le ricadute si stanno facendo sentire sulla continuità produttiva e sulla tenuta delle relazioni industriali nella filiera”.
Dunque, prosegue la lettera, “la mediazione va trovata e va trovata ora. Crediamo nell’impostazione di un accordo sostenibile dal punto di vista economico e industriale, ma serve il coraggio di valutare con realismo il contesto e le posizioni dei sindacati, dando un segnale concreto per riaprire e portare a termine il negoziato”.
E ancora, la lettera spiega che sì, certo, le richieste di Fiom, Fim e Uilm sono probabilmente oltre la possibilità delle imprese di sostenerle, ma nello stesso tempo “è chiaro”, il passaggio è osé, che la proposta avanzata da Federmeccanica al tavolo delle trattative “si è rivelata non sufficiente per chiudere il contratto”: occorre prenderne atto e cercare di trovare una mediazione, perché la trattativa “non può rimanere imbrigliata in uno schema rigido”.
Dunque, occorre “un impegno” per riprendere “un confronto serio”, finalizzato a concludere il contratto, e non alla sua rinuncia.
Questa inconsueta presa di posizione spiega molte cose anche sulla situazione produttiva del Paese, almeno in alcuni settori (quando capirà la sinistra che i piani di riarmo – oltre a rispondere a un’esigenza di difesa – costituiscono anche un modello di politica industriale ad alto contenuto di tecnologia?). Ma se qualcuno va sbirciare nella pubblicistica della Cgil non troverà una spazio adeguato a sostegno del rinnovo metalmeccanici, a fronte della profusione di materiale di propaganda elettorale (chi paga?) per il Sì nei cinque referendum (in particolare nei quattro della Cgil).
È la conferma della mutazione genetica che è in corso (ormai giunta alla fine) di questa grande e gloriosa organizzazione. A questo proposito l’invito di chi scrive è quello di astenersi l’8 e il 9 giugno. Votare No sarebbe come votare Sì perché la sfida si gioca tutta sul raggiungimento o meno del quorum. Non è il caso allora di cedere alla lusinga delle anime belle e farsi abbindolare con la solfa del dovere civico del voto. I quesiti della Cgil sono inutili e dannosi.
Chi cerca un’autorevole conferma di questo giudizio faccia lo sforzo di scaricare di leggere la sentenza n. 12 del 2025 dove è la stessa Corte Costituzionale a mettere in guardia gli elettori verso la pubblicità ingannevole della coppia Landini-Schlein.
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