Si continua a parlare del possibile addio alla Bce di Lagarde. Al Presidente francese Macron potrebbe non dispiacere Panetta come suo successore
Durante la conferenza stampa di annuncio di taglio dei tassi, la presidente della Bce Christine Lagarde ha nuovamente smentito l’ipotesi di suo abbandono anticipato (il suo mandato scade nell’ottobre 2027). Già una decina di giorni fa Francoforte aveva già dovuto negare un’indiscrezione particolarmente intrigante, perché riferita al Financial Times dal fondatore del World Economic Forum di Davos, Klaus Schwab: Lagarde avrebbe potuto lasciare il timone Bce proprio per andare a rilanciare il Wef, una sorta di “ordine sovrano” dell’élite globale.
Il gossip si è subito riattizzato in margine all’ultimo vertice fra il presidente francese Emmanuel Macron e la premier italiana Giorgia Meloni. Un summit insolitamente lungo, quello tenuto martedì a Palazzo Chigi, e concluso senza conferenza stampa: a conferma che l’incontro è stato molto operativo, lontano dal tenore di un bilaterale protocollare.
Non è noto se il futuro della Bce sia stato oggetto effettivo degli stessi pourparler fra Meloni e Macron, fra politica e affari. Sta di fatto che sulla stampa italiana è affiorata ad horas una suggestione: che per la successione di Lagarde, fra Parigi e Roma possa prendere forma la candidatura dell’attuale governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta.
Che Panetta disponga di un curriculum a stelle piene per aspirare alla poltrona che è stata di Mario Draghi è fuori di ogni dubbio. Quando è stato chiamato in via Nazionale – nel giugno 2023 dal Governo Meloni – Panetta era membro dell’esecutivo Bce, la vera stanza dei bottoni dell’euro. E lì era approdato dopo cinque anni di servizio nel primo Consiglio di supervisione bancaria di Francoforte (guidato dalla francese Danièle Nouy, cui succedette l’italiano Andrea Enria). Per questo il governatore italiano è stato da subito considerato un membro senior e influente nel “consiglione” Bce dei 27 Governatori dell’eurozona.
Le posizioni sostanziali di Panetta – riassunte pochi giorni fa nelle Considerazioni finali 2025 – sono note. Non è certamente un “falco” ideologico della politica monetaria, come peraltro non sembra esserlo più nemmeno la Bundesbank (a lungo implacabile oppositrice dell’espansionista Draghi).
Il governatore italiano è un europeista convinto della forza istituzionale dell’unione monetaria. Non per questo – da ex responsabile del prestigioso ufficio studi Bankitalia – è poco attento all’economia reale inserita in un più ampio contesto sociale e civile, al contrario. Anche per questo negli ultimi due anni non ha mai fatto mancare la sua voce in appoggio alla normalizzazione dei tassi dell’euro, in funzione di rilancio dell’Azienda-Europa, duramente provata prima dalla pandemia poi dall’inflazione da crisi geopolitica.
Per quanto dotato di una sensibilità forse meno spiccata di Draghi per le dinamiche dei mercati finanziari globalizzati, Panetta è però sicuramente “draghiano” nel sostenere un’agenda europea di recovery industriale supportata da “debito buono” contratto e gestito a livello Ue. Per questo l’identikit del governatore italiano è in sé gradito al presidente francese fin d’ora, in fase di primi abboccamenti fra leader europei sulla Bce.
Macron da sempre grande estimatore di Draghi, che da ex premier ha iniziato a premere per una politica economico-finanziaria Ue non conservatrice sui parametri di Maastricht. La situazione finanziaria francese è oggi relativamente peggiore di quella italiana (anzitutto sul fronte del deficit corrente) e l’attuale presidenza francese della Bce è sempre a sospetto di conflitto d’interesse con Parigi quando promuove una politica monetaria espansiva.
Su Lagarde, intanto, non si sono mai del tutto dissolte le ombre legate a un curriculum privo di esperienze specifiche di central banking e fondato prima su un incarico politico (ministro delle Finanze a Parigi) e poi sulla guida para-tecnocratica del Fondo monetario internazionale.
Lagarde, comunque, è attesa al suo impegno istituzionale all’Eurotower per altri due anni e tutti i suoi predecessori (l’olandese Dick Duisenberg, il francese JeanàClaude Trichet e Draghi) hanno completato il mandato. Un solo evento sembra poter spingere la presidente a dimettersi in anticipo: la chiamata a Parigi come premier. Una prospettiva che è diventata negli ultimi tempi meno teorica e remota.
Il Governo Bayrou – il secondo dopo le elezioni anticipate di un anno fa in Francia, seguite al crollo del “campo Macron” all’euro-voto – resta molto fragile. L’appoggio parlamentare della destra è venuto virtualmente meno dopo la controversa ineleggibilità di Marine Le Pen dichiarata dalla magistratura. Ma – soprattutto – Bayrou sembra lontano dal poter sciogliere i nodi di politica economica e finanziaria lasciati da Macron e dal suo primo premier “in coabitazione”, il gollista Michel Barnier.
Il presidente è sopravvissuto nel frattempo prendendo le distanze dal Governo in una sorta di “Aventino” all’Eliseo, proiettandosi a fondo nella sua competenza costituzionale sulla politica estera. Per Macron stesso, tuttavia, la campana sembra prossima a suonare: difficilmente può pensare di reggere in carica due anni (senza più essere rieleggibile nel 2027) prolungando la grave impasse del suo Paese. Per questo sta attentamente studiando mosse che difficilmente potrà sbagliare: come invece lui stesso ha ammesso di aver fatto un anno fa, chiamando a tamburo battente il voto anticipato per l’Assemblea nazionale nella convinzione di poter rovesciare subito la sconfitta europea. Invece confermandola.
L’ipotesi di Lagarde premier istituzionale sembra poggiare – oltreché sulla centralità finanziaria della crisi francese – sull’evidente precedente di Draghi in Italia. Macron ne otterrebbe una stabilizzazione della sua presidenza semipresidenzialista – in una “coabitazione” più praticabile di quella inizialmente tentata con Barnier – e Lagarde diverrebbe una (sua) candidata naturale alla successione.
Questo, prevedibilmente, attirerebbe su di lei fin da principio più di un’opposizione (della stessa natura di quelle che hanno impedito a Draghi di salire al Quirinale da Palazzo Chigi). Per di più, mentre Draghi non aveva affiliazioni politiche (salvo una generica sensibilità liberaldemocratica), Lagarde ha un passato politico molto profilato, essendo stata ministro sotto la presidenza gollista di Nicolas Sarkozy.
È vero, tuttavia, che proprio l’attuale presidente della Bce sembra avere oggi una leadership propria, capace di ritentare un “fronte repubblicano” per riunire gollisti, campo (post)macroniano e sinistra moderata sia contro la destra estremista, sia per contenere la sinistra antagonista.
Se comunque qualcosa dovesse maturare nella seconda metà dell’anno sul fronte interno francese, la ricerca di un nuovo numero uno per la Bce subirebbe una drastica accelerazione. La Germania – che reclamava la guida della banca centrale già nel 2019 – resta nei fatti fuori gioco (anche nel caso di una successione ordinaria a termine) perché occupa già con Ursula von der Leyen la prima poltrona Ue, al vertice della Commissione di Bruxelles. Per questo, ufficiosamente, Berlino punterebbe sul finlandese Olli Rehn: un commissario Ue di lunghissimo corso (da ultimo agli Affari economici e finanziari), estraneo però alla comunità dei banchieri centrali.
Il suo appare un profilo vicino a quello di Lagarde ed è indicativo che sia stato il predecessore a Bruxelles del lettone Valdis Dombrovskis, che tuttora svolge il ruolo di “commissario aggiunto” tedesco in funzione di cane da guardia sui conti finanziari dei Paesi deboli. Un tempo lo era principalmente l’Italia, oggi lo è anche la Francia. In ogni caso: quello di Rehn è un curriculum debole, che pare fatto circolare per ragioni tattiche. Le stesse che hanno fatto balenare ora la candidatura Panetta.
Il Governo Meloni – se toccherà a questa maggioranza orientare per l’Italia la scelta del nuovo governatore dell’euro – difficilmente potrebbe mostrare esitazioni: troppo alta l’importanza della poltrona in gioco. Ma certamente non si profilerebbe un passaggio neutro per la premier – che pure ha designato Panetta in Bankitalia – partecipare attivamente alla nomina di un italiano nel cuore dell’Europa delle monete e dei banchieri. Sarebbe necessaria quella che nel gergo giornalistico di un tempo si sarebbe chiamata una “verifica politica” a livello europeo: una verifica peraltro implicita in un’ipotetica “operazione Panetta”.
Il passaggio verterebbe sulla legittimazione politica in Europa di FdI e di altre forze nazionali europee della destra conservatrice e riformista (Ecr). È un dossier cui sta d’altronde già lavorando il Ppe del tedesco Manfred Weber, a valle del faticoso compromesso sulla governance Ue del post-voto 2024.
Meloni, sicuramente, non dimentica che Macron – in un panico affannato, in tandem con l’allora cancelliere socialdemocratico tedesco Olaf Scholz – contrastò in tutti i modi la candidatura italiana (e di Ecr) di Raffaele Fitto, infine eletto vicepresidente di von der Leyen.
Ma la premier italiana, soprattutto, era ministro del Governo Berlusconi quando l’Italia sostenne la candidatura alla Bce del governatore di Bankitalia Mario Draghi. Poche settimane dopo si scatenò l’attacco “di mercato” al debito pubblico italiano, culminato in una lettera-diktat proveniente dalla Bce. Con due firme: quella del presidente uscente, il francese Trichet, e quella del presidente italiano entrante.
Il Governo italiano venne spazzato via, nonostante fosse stato votato tre anni prima con una maggioranza molto larga. E il Quirinale del “dem” Giorgio Napolitano impose il tecnocrate Mario Monti, ex commissario Ue di fiducia di Parigi, Berlino, Bruxelles e Francoforte. Nelle stesse settimane si svolse una “operazione militare speciale” Nato, molto volenterosa, guidata dalla Francia contro la Libia.
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