Alla fine, il redde rationem arriva sempre. E il primo è qui, fra noi. Dico il primo, perché non pensiate che le conseguenze dell’atteggiamento europeo nel conflitto in Ucraina si limiteranno a quanto sta accadendo in campo energetico. Scordatevelo. Saranno di lungo periodo. E pesantissime. Insomma, chi alla domanda retorica di Mario Draghi rispetto alla scelta fra pace e condizionatori accessi, scelse la prima ipotesi, ora comincia a pagarne le conseguenze. E a sudare. Ma freddo. Nord Stream è chiuso per manutenzione e lo resterà fino al 21 luglio. Ma, in realtà, Germania e Francia danno per certo che il 22 luglio non cambierà nulla. A meno di una clamorosa retromarcia nei confronti di Mosca. La quale, badate bene, silenziosamente e sottotraccia in parte è già cominciata: se infatti si sta facendo di tutto per sbloccare a tempo di record il sequestro della turbina necessaria a Gazprom per pompare gas alla Germania da parte del Canada, unica ragione per cui ieri il prezzo del gas ad Amsterdam non è esploso, significa che il Cremlino sta raccogliendo i frutti del suo ricatto.
Piaccia o meno, Mosca sta vincendo. Alla faccia delle sanzioni, capaci finora di colpire al cuore solo chi le ha imposte. Ovvero, noi. Perché gli americani, ovviamente, si sono ben guardati dal farlo. Hanno sbandierato due provvedimenti per allocchi su diamanti e vodka, messo in campo un piano di isolamento della Banca centrale che doveva portare al default sovrano e invece ha solo messo in difficoltà solo i detentori di bond e lanciato nello stagno la provocazione del bando totale sull’energia russa. E per fare cosa?
Ce lo dicono i dati del Department of Energy americano relativi ai mesi di aprile e maggio: durante i quali, l’Amministrazione Biden ha autorizzato la vendita di 5 milioni di barili di greggio delle riserve strategiche Usa. Un milione dei quali alla Cina, ovvero alla potenza rivale che al G20 di Bali si è ancora fatto finta di voler mettere sotto pressione per Taiwan e il sostegno alla Russia. È tutto nero su bianco e certificato, basta andare sul sito federale. E sapete a chi è andato il 98% del petrolio finito al Dragone? Alla Sinopec, azienda a totale controllo statale. E, casualmente, nella quale ha investito 1,5 miliardi di dollari nel 2014 il fondo di private equity alla cui creazione ha collaborato Hunter Biden, il figlio del Presidente Usa, già invischiato nei giri di corruzione e mazzette della Burisma proprio in Ucraina.
Nel frattempo, gli Usa si sono resi conto che il prezzo dell’energia comincia a mordere i salari. E visto che in novembre c’è il midterm, dopo mesi di export record che hanno illuso l’Europa di aver trovato un’alternativa al gas russo, prima vedono esplodere l’hub texano della Freeport LNG, ridotto a operatività dimezzata fino a settembre e sabato scorso ha registrato un altro botto, questa volta nel sito di stoccaggio della ONEOK a Medford, in Oklahoma. Tu guarda che combinazioni, due incidenti in meno di un mese. Se volete credere alle coincidenze, fate pure. In compenso, i giornali di ieri millantavano piani di emergenza del nostro Governo per affrontare il più che probabile taglio totale delle forniture di gas russo, proprio ora che si stava compiendo la fondamentale operazione di riempimento degli stoccaggi per affrontare l’inverno. Senza aiuto americano, come appena dimostrato.
Balle. Il Governo non ha la minima idea di come operare, siamo nel totale caos organizzativo peggio della prima ondata di Covid. E la conferma arriva dalla Germania, dove invece il principale gruppo immobiliare tedesco, Vonovia, ha già annunciato che abbasserà la temperatura dei riscaldamenti centralizzati dei suoi condominii a 17 gradi dalle 11 di sera alle 6 del mattino, una misura che dovrebbe garantire un risparmio dell’8% sui costi energetici. Ma c’è chi non ha atteso l’arrivo delle brume autunnale per agire. Un’associazione di proprietari della città sassone di Dippoldiswalde, al confine con la Repubblica Ceca, ha già imposto razionamenti dell’acqua calda, stabilendo orari in cui i residenti possono fare la doccia: dalle 4 alle 8 del mattino, dalle 11 di mattina alle 13 e dalle 17 alle 21. Come abbiamo deciso e annunciato alla nostra riunione generale, è necessario fin da ora risparmiare in vista dell’inverno, si legge su un volantino affisso in tutti i palazzi di proprietà. Parliamo della Germania del 2022. E non del 1922.
E ancora. Helmut Dedy, presidente della Deutscher Städtetag (il corrispettivo tedesco dell’Anci), ha reso noto che la sua associazione ha già diramato direttive di massima a tutte le città grandi e medie per tagliare fin da subito i consumi energetici, in modo che quanto verrà risparmiato in estate sarà disponibile per avere case riscaldate in inverno. Ogni kilowatt/ora che viene salvato dallo spreco finisce negli stoccaggi. E la questione appare decisamente urgente, poiché Dedy sta girando l’intero Paese come una trottola per incontrare gli amministratori locali e sensibilizzarli su alcuni suggerimenti da mettere in pratica fin da subito: spegnere i semafori di notte, chiudere l’acqua calda negli edifici pubblici, nei musei e nei centri sportivi, abbassare il livello de condizionatori ed eliminare l’illuminazione di monumenti e palazzi storici. Praticamente, uno stato di emergenza bellico. Preventivo e permanente.
In Italia, l’Anci non è nemmeno stata convocata. E non esiste uno straccio di contingecy plan. Basta chiedere a qualsiasi sindaco di un qualsiasi comune, da Milano all’ultimo piccolo centro dell’entroterra lucano. E che dire di quanto già messo in pratica nel distretto di Lahn-Dill, nell’area di Francoforte? Acqua calda chiusa nelle 86 scuole e nei 60 licei del comprensorio, una mossa che dovrebbe garantire un risparmio di circa 100.000 euro. Mentre a Dusseldorf l’amministrazione ha deciso la chiusura del Münster-Therme, un enorme complesso di piscine e Spa, a Berlino l’acqua delle piscine all’aperto è più fredda di 2 gradi centigradi e a Colonia l’illuminazione stradale è ridotta del 70% dalle 11 di sera all’alba. E la corsa all’acquisto alternativo da parte dei cittadini impauriti ha già fatto schizzare alle stelle il prezzo di pellet e carbone.
Tutto questo è già realtà in Germania. Ovvero, in Europa. Non stiamo parlando delle misure prese in Sri Lanka per far fronte all’insurrezione popolare e alla transizione di potere, parliamo della conseguenze – note fin dall’inizio – dell’oltranzismo miope e servile dell’Ue a una palese guerra per procura degli interessi Usa che solo adesso sta svelando il suo vero volto, senza più nemmeno la decenza di mistificare un pochino la realtà. E voi vi preoccupate dell’eventuale crisi di governo che si potrebbe innescare dopodomani in Senato sul DL Aiuti, in caso i Cinque Stelle decidessero di dire no e staccare la spina? Ci sarebbe da sperarlo. E chi vi dice che sarebbe un mortale e irresponsabile salto nel buio, mente. Come mentiva quando vi dicevano che le sanzioni avrebbero piegato Mosca.
Paradossalmente, infatti, non esiste momento storico migliore per essere i primi a innescare una crisi su ampia scala nell’eurozona, poiché tutti sono messi malissimo. E la Germania, peggio di tutti. Minacciare un’ecatombe debitoria tramite i nostri Btp, stante i 250 miliardi in pancia solo alle banche francesi, costringerebbe Commissione e Bce a interventi davvero senza precedenti. Altro che concambio a saldi invariati. E manderebbe in soffitta, almeno per un po’, ogni ipotesi di do ut des fiscale in contropartita allo scudo europeo per il nostro debito. Berlino non è mai stata così vulnerabile, occorre approfittarne. O poi sarà davvero Troika. Di quelle senza pietà.
Non ci credete? Liberissimi. Ma senza falsa modestia, finora di cantonate ne ho prese poche. A differenza di altri.
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