KKR, colosso di private equity da 110 miliardi di capitalizzazione, è stata l’ultima di una lunga serie di istituzioni a sottolineare che il debito americano non è più un rifugio in tempi di incertezza. È quello che si è verificato nei giorni successivi all’annuncio dei dazi quando il rendimento del decennale americano, mentre gli indici azionari crollavano, saliva dal 4% al 4,5% nel giro di pochi giorni.
Nemmeno la riduzione dei dazi contro la Cina e la ripartenza delle navi verso la costa degli Stati Uniti sono finora stati sufficienti ad abbassare i rendimenti. Il downgrade di Moody’s di venerdì ha solo certificato una questione che da molti trimestri è al centro delle discussioni dei protagonisti della comunità finanziaria americana.
Ben prima delle elezioni di novembre, da Jamie Dimon e Larry Fink in giù, rispettivamente ad di Jp Morgan e Blackrock, la comunità finanziaria aveva segnalato l’insostenibilità delle finanze americane. Gli Stati Uniti hanno avuto deficit che non si vedevano da periodi di guerra sia nel 2023 che nel 2024 con l’economia che cresceva e la disoccupazione ai minimi. Oggi, complice la rottura delle catene di fornitura e la ridefinizione dei commerci, la questione è di attualità perché l’inflazione torna di moda. Della vicenda del debito pubblico americano e di quelli di molti altri Paesi sviluppati si potrebbero riempire enciclopedie. Tra i tanti angoli ce ne sono due di cui si discute meno.
Il primo è che l’insostenibilità dei debiti pubblici, tutti cresciuti a dismisura negli ultimi due decenni, è frutto di due fasi storiche. La prima è la grande crisi finanziaria del 2008 e la seconda quella causata dai lockdown dopo l’arrivo del Covid. In entrambi i casi sono stati i Governi a salvare l’economia offrendo una copertura illimitata con la garanzia dei contribuenti. Le società, anche finanziarie, non sono saltate perché i Governi hanno espanso i propri bilanci e difeso passività che altrimenti sarebbero andate a zero.
Da entrambe le fasi le economie sono riemerse non solo con i profitti di prima, ma, in particolare nel 2022, con margini che non si vedevano da decenni. I costi e i benefici di quelle operazioni non sono stati distribuiti in modo proporzionale e questo spiega perché si è esaurita la capacità di supporto dei Governi che non hanno incassato il “premio” dell’assicurazione che hanno offerto né prima, né dopo le crisi.
Il secondo è che oltre a una questione finanziaria c’è anche un tema politico. È ormai opinione comune, con pieno diritto di cittadinanza nel dibattito economico (Ray Dalio tra i tanti), che la decisione di imporre sanzioni sugli asset russi o limitazioni nei pagamenti abbia offuscato lo status di valuta di riserva del dollaro. Si può anche ritenere, come la maggioranza di chi evidenzia questo tema, che gli Stati Uniti abbiano fatto e facciano bene a usare il dollaro per colpire o sanzionare la Russia, ma questo non toglie che il precedente non gioca a favore della valuta americana. Chiunque oggi è obbligato a chiedersi cosa succederebbe ai propri dollari in caso di disaccordo con gli Stati Uniti.
Questa può essere una domanda inutile alle nostre latitudini, ma in molte altre regioni diventa inevitabile. La diversificazione dal dollaro, questo può essere per esempio il caso cinese, non ha solo una motivazione economica ma anche politica; più i conflitti aumentano, più la questione diventa attuale.
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