La Cina ha mostrato tutta la sua forza prima dei colloqui di Londra con gli Usa, mentre l'Europa non ha forse compreso la situazione
Come cantava John Lennon, war is over. La guerra commerciale in realtà mai davvero cominciata fra Usa e resto del mondo è terminata. Sono bastati due giorni di colloqui a Londra per giungere a quella che viene definita un’implementazione degli accordi già raggiunti a Ginevra. Gli stessi che Donald Trump diceva di veder completamente calpestati dalla Cina. Parliamo non più tardi della scorsa settimana. E invece, a quanto pare lo strappo non deve essere stato troppo profondo, se sono bastate 36 ore sotto il Big Ben per decretare la fine di ogni minaccia ritorsiva.
Ma tranquilli, perché la pantomima non finirà mica qui. Wall Street ha bisogno del coniglio dal cilindro del suo flip-flop di turno. Con straordinaria contemporaneità, infatti, una misconosciuta Corte d’appello Usa garantiva al regime di tariffe reciproche dell’Amministrazione statunitense altri due mesi di vita. Insomma, la guerra è finita, ma se i titoli tech o i rendimenti obbligazionari dovessero renderlo necessario, ecco che la Casa Bianca ha ben pensato di garantirsi un lasciapassare giuridico in attesa della Corte Suprema.
Fin qui, la cronaca. Ma per quanto mi riguarda, ciò che conta stava già tutto in questa clamorosa dichiarazione di onnipotenza politica. Ovvero in ciò che è successo prima dell’incontro londinese. Un chiaro segnale che Pechino ha voluto inviare, prima appunto che il gioco delle parti prendesse il sopravvento.
La riprova che, piaccia o meno, la Cina detiene il banco. Fissa le regole. Detta le condizioni. E si permette quindi il beffardo lusso di elargire concessioni come ramoscelli d’ulivo. E non solo alle aziende statunitensi. Anche a quelle europee. Anche a Stellantis. Ecco che arrivano le licenze temporanee di esportazione per i metalli strategici. Le terre rare. Temporanee, appunto. Probabilmente anche Renault ne ha beneficiato.
E sapete perché ci tengo a sottolinearlo? Perché in piena riconversione da crisi green e da bellicismo della disperazione, Emmanuel Macron avrebbe chiesto proprio a Renault di fabbricare droni in Ucraina. Il warfare del camembert.
Insomma, prima le aziende europee del settore automotive (e non solo) inviano lacrimose lettere alla Commissione Ue, affinché interceda con Pechino in modo da ottenere quelle componenti necessarie a non bloccare del tutto produzioni già ridotte ai minimi sindacali da quella geniale intuizione nota come Green New Deal. Poi, quantomeno nel caso francese, fingono di non sapere come la Cina sia alleato della Russia e invitano candidamente le loro imprese del comparto a lasciare perdere berline e Suv e darci dentro con i droni. Gli stessi che presumibilmente Kiev utilizzerà per colpire infrastrutture sul territorio russo come accaduto nelle ultime settimane.
Forse non stiamo capendo in quale tipo di evoluzione ci troviamo. Forse pensiamo che tutto il mondo graviti attorno a Bruxelles. E in tal senso e di conseguenza, operi e si comporti. Già che ci siamo, mettiamo ancora un pochino di carne al fuoco in tal senso. Meglio abbondare, quando si tratta di euroburocrati.
E guardate come questo grafico sintetizzi alla perfezione quella che, a mio avviso, era la seconda, vera notizia di giornata emersa lunedì, quando montava l’attesa per l’incontro di Londra. Nel solo mese di aprile, il Giappone ha ridotto le sue detenzioni di Bund tedeschi per un controvalore di 1,48 trilioni di yen, la più grande sell-off su base mensile da oltre un decennio.
E come se questo non bastasse, Miss Watanabe ha deciso di disfarsi anche di 1,07 trilioni di Treasuries Usa, la riduzione maggiore dall’ottobre 2024. Il mondo non è più Occidente-centrico. E, soprattutto, le manipolazioni da arbitraggio facile come il carry trade fra dollaro e yen non sono affatto gratuite. Un tempo lo potevano sembrare. Forse anche essere. Oggi con il grado di leverage che contraddistingue il cosiddetto mercato, le fluttuazioni sui tassi fanno in modo che tutto possa mutare in un attimo. E che anche il timido Giappone faccia seguire alle parole, i fatti. E venda carta pregiata per salvare lo yen. O il Nikkei, alternativamente.
Temo che l’Europa non abbia capito quale sia la posta in palio. E, soprattutto, di quanto poco potere di interlocuzione goda al tavolo globale. La Cina ha dimostrato a tutti con un semplice atto di diplomazione che, solo attraverso le terre rare, può chiudere i giochi. E farli ripartire soltanto a regole cambiate (da lei). E ovviamente a suo favore.
Qualcuno avvisi Macron. E, forse anche chi in Italia non ha ancora capito come approcciare i nuovi equilibri internazionali. E continua a parlare di spread dei miracoli come se fosse davvero da mettere in relazione con i miglioramenti macro dell’economia o dei conti pubblici. Quel grafico parla chiaro: il nostro spread con il Bund sotto 100 punti base è tutto e soltanto merito della paura giapponese che stavolta qualche banca non passasse ‘a nuttata.
Ma c’è poco da festeggiare. Perché finora Tokyo quell’arma l’aveva usata unicamente in chiave di deterrenza potenziale. E soltanto per le grandi occasioni di crisi. Stavolta, invece, alle parole sono seguiti i fatti. E per controvalori che devono davvero far riflettere. A meno che non si pensi davvero che la fine della guerra dei dazi risolverà a sua volta ogni criticità sedimentata da un quindicennio di tipografia Lo Turco di massa. Nel quale caso, festeggiate pure. E fate pure finta che il 18° pacchetto di sanzioni contro la Russia appena varato dalla Commissione Ue non si sostanzierà nel proverbiale chiodo sulla bara dell’eurozona.
Cina e Usa, nel frattempo, attendono pacifici lungo la sponda del fiume. Siglando patti pantomima che divengono narrativa. E se questo non bastasse, c’è una Los Angeles che brucia a garantire una bella cortina fumogena. Di molotov.
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