In ossequio agli alti lai che mettono in guardia l’Italia dai rischi di un oltraggioso commissarimento europeo, domani la Bce ci dirà quale sarà il nostro futuro. Il piano di implementazione del Pepp non rappresenta infatti soltanto una contingenza tecnica, bensì il cuore stesso dello snodo epocale che stiamo vivendo in tempi – appena cominciati – di post-lockdown. Verrà ampliato l’ammontare a disposizione dell’Eurotower, al fine di garantire una potenza di fuoco che non vada ad esaurirsi anzitempo con l’autunno, stante il ritmo del acquisti in atto? E se sì, di quanto si amplierà? E la capital key, subirà ulteriori rilassamenti nei criteri applicativi, permettendo a Paesi come il nostro di continuare a godere di un controvalore di debito acquistato da Francoforte superiore al limite statutario per emittente? Si arriverà all’acquisto tout court di debito junk, sia corporate che sovrano, in caso di downgrade del rating di quest’ultimo? Infine, davvero salterà il limite del 10% per l’acquisto d debito cosiddetto sovranazionale, ovvero la conferma indiretta del fatto che la Bce opererà da backstop anche per gli acquisti di obbligazioni comuni che l’UE emetterà per finanziare il Recovery Fund?
Tutte domanda esiziali per il nostro spread, alla vigilia del pericoloso e infido periodo estivo. E di questa dinamica, la quale vede i nostri costi di finanziamento ancora decisamente più alti di quelli di Spagna e Portogallo nel tendenziale (nonostante gli acquisti Bce) e a fronte di uno spread che oggi intraday ha brevemente visto superata un’altra volta la soglia psicologica dei 200 punti base.
Poche ore e avremo la risposta. I mercati azionari, negli ultimi giorni, sono invece sembrati tutti sintonizzati su un sentiment positivo, quasi a voler anticipare un epilogo ulteriormente espansivo da parte dell’istituzione guidata da Christine Lagarde. Ma è tutto rose e fiori come sembra? Oppure occorre tenere d’occhio variabili nascoste e sottotraccia? Io propendo per la seconda ipotesi. A partire dall’articolo tutt’altro che aperto a interpretazioni pubblicato il 31 maggio dal principale quotidiano economico tedesco, Handelsblatt e dal suo titolo decisamente esplicito: La maggioranza del Bundestag sta vacillando sul piano per il Corona della Merkel? Ancora più chiaro l’occhiello: I membri dell’Unione hanno serie perplessità riguardo il piano per la ripartenza dell’Ue. Temono l’introduzione di una mutualizzazione del debito che passi dalla porta sul retro.
Insomma, nonostante i quadretti idilliaci che vengono tratteggiati da editorialisti e corrispondenti da Berlino dei vari giornali, la questione è tutt’altro che risolta in vista del negoziato e del primo Vertice del 18 giugno. E, soprattutto, della deadline del 5 agosto imposta dalla Corte di Karlsruhe alla Bce per dimostrare la proporzionalità delle politiche poste in essere. E non per l’opposizione di Alternative fur Deutschland, bensì per una netta spaccatura all’interno della partito-coalizione del centro Cdu-Csu, soprattutto nella sua componente più dura e rigorista, quella bavarese.
E l’articolo parla chiaro: al centro dei dubbi ci sono proprio i 172 miliardi di cui beneficerebbe l’Italia e il solito dubbio amletico. Ovvero, Roma riuscirà a spendere quei soldi senza sprecarli? Diranno molti di voi: come si permettono i tedeschi di farsi gli affari nostri? Formalmente, sono affari anche loro. Ma, sopratutto, il problema di questo Paese risiede proprio nel fatto che molta gente ragioni così, cercando un alibi e un nemico. Cosa sta frenando la nostra crescita da almeno quindici anni? L’incapacità di riformare lo Stato, renderlo più snello, efficiente e in linea con il principio di sussidiarietà nei confronti delle leggi di mercato. Perché? Perché campiamo storicamente di capitalismo di relazione, di rendite di posizione, di oligopoli dominanti, di rapporti incestuosi fra politica, imprenditoria e sistema bancario. Non ultimo, perché abbiamo una giustizia civile – quella chiamata a dirimere le controversie sul lavoro, ad esempio – amministrata da una classe di magistrati in parte prona a logiche di corrente, come la cronaca quotidiana di questi giorni dimostra.
Scusate, dopo le pubblicazioni delle chat facenti capo al dottor Palamara, se voi foste un imprenditore straniero, verreste a investire il vostro denaro in Italia? Io nemmeno morto. Provate, a mo’ di esercizio di stile, a mettervi nei panni del management di Arcelor-Mittal, ad esempio: non trovereste straordinariamente a favore della vostra tesi difensiva in seno al contenzioso con lo Stato sull’ex Ilva di Taranto, il fatto di poter reclamare la non totale parzialità dell’organo chiamato a decidere sui fatti? Il fumus persecutionis non vale solo per il processo al senatore Salvini sugli sbarchi di clandestini, vale per chiunque sia abbastanza ricco e con le spalle larghe da affrontare un contenzioso in punta di quelle intercettazioni sulle chat. Capite che, fossi tedesco, magari anch’io mi porrei qualche domanda sulla destinazione reale e finale di quei fondi comuni, non fosse altro per le performance offerteci nel recente passato da M5S con il suo reddito di cittadinanza e l’istituzione della figura mitologica del navigator.
Vogliamo poi parlare dei miliardi di euro di fondi europei già stanziati e a disposizione che il nostro Paese non è stato in grado di utilizzare negli ultimi anni, lasciando che fossero altri a beneficiarne? Scusate, ma, come quasi sempre, io sto dalla parte del pragmatismo e della serietà del buonsenso tedesco. Ma attenzione al pericolo più nascosto dell’intera vicenda. Ovvero, il ritorno in stile film di Gianni Morandi della Francia nelle braccia della Germania, dopo il mezzo flirt con l’Italia proprio in sede europea per tentare la strada dei Coronabonds.
Il perché sta tutto in questi tre grafici, i quali mostrano chiaramente come l’extra-deficit che andrà a colpire Parigi quest’anno in virtù della crisi da lockdown stia già facendosi sentire sulle dinamiche di debito. Con una Francia che, già lo scorso anno, oltretutto ha presentato la domanda di iscrizione al club della ratio debito/Pil a tripla cifra. Come noi.
Il primo grafico è intuitivo, mostra la deviazione dalla capital key applicata dalla Bce nell’arco dei primi due mesi di Pepp, ovvero fra marzo e maggio. Agli antipodi, il beneficiario (Italia) e il principale penalizzato (Francia). La quale, in compenso, ha goduto grandemente dell’acquisto di commercial papers da parte della Bce, ovvero i pagherò aziendali, uniti agli acquisti di bond corporate: sintomo che nel cuore dell’economia reale transalpina, nel sistema di finanziamento delle aziende, qualcosa è grippato. E, con esso, la solvibilità creditizia nell’erogazione di fondi da parte del sistema bancario, il quale ha utilizzato a piene mani tutte le facilities messe in campo dalla Bce per garantire liquidità all’economia reale, come mostra il secondo grafico (e guardate un po’ chi c’è al primo posto assoluto nell’utilizzo del “bancomat” Ue, al netto delle farraginosità nell’erogazione di prestiti e della disputa con lo Stato sulla Cig), ma sconta a bilancio un abuso di prodotti strutturati da digerire. Nella speranza, ovviamente, che nulla ne faccia precipitare il valore facciale.
Contestualmente, la Francia sta vivendo anche un problema sovrano di credibilità creditizia come nazione, anche alla luce del downgrade dell’outlook a negativo operato lo scorso 15 maggio da Fitch. Come mostra il terzo grafico, infatti, nel mese di marzo – quando ancora il lockdown più pesante era in atto solo in Italia e, anzi, Oltralpe si giocava alla sottovalutazione -, il Giappone ha scaricato debito francese con il badile, oltre ad altro dell’eurozona (italiano compreso) per operare la più classica delle operazioni di appeseament politico: comprare Treasuries Usa, in vista di un possibile deterioramento dei rapporti nell’area asiatica fra Stati Uniti e Cina. Oltretutto, in un momento in cui la Fed ancora doveva sfoderare tutta la sua potenza di intervento e controllo formale della curva.
Parigi sta quindi patendo un crollo della credibilità internazionale e della stabilità economica interna, un qualcosa di inaccettabile e difficilmente sostenibile nel lungo periodo da un Paese statalista e dal capitalismo di Stato sclerotizzato come la Francia, pur mascherato da una grandeur fuori tempo massimo e degna di miglior causa. Ecco perché Emmanuel Macron, a tempo di record, è passato dal fronte anti-austerity del Paesi mediterranei all’asse ex ante con la Germania, anticipando addirittura la Commissione Ue nel tracciare le linee guida comuni del Recovery Fund. Il quale, al netto di quanto vi ho detto finora e dell’operatività Bce (la quale, giocoforza, deve privilegiare l’Italia a scapito della Francia per evitare un nostro precipitare della sostenibilità debitoria, un ritorno di fiamma politico del sovranismo nel Paese e, più in generale, un’ipotesi di Italexit che riprenda vigore prima del tempo) deve divenire principalmente strumento difensivo di Parigi, delle sue banche e delle sue aziende dal fall-out economico del virus.
Insomma, il rischio è quello di una strategia europea del bastone e della carota perenne con l’Italia, da un lato tenuta artificialmente in vita dagli extra-acquisti di debito della Bce e dall’altro messa sotto controllo e mora europea a livello di riforme. Le quali, se mal gestite, nel breve periodo si sostanzieranno in altrettante opportunità di shopping da parte dei competitor europei a prezzo di saldo: Francia in testa, godendo oltretutto di una certa esperienza pregressa nel campo, dalla grande distribuzione all’alimentare fino alle banche. Capite perché voglio assolutamente un passo indietro della politica, in questo momento? Capite perché servono dei tecnici seri, preparati verso certe dinamiche e in grado di tessere rapporti internazionali di partnership che in questo momento ci servono come l’aria che respiriamo?
Attenzione alle mosse di domani della Bce e allo spirito politico con cui si arriverà al Vertice del 18 giugno: molto, se non tutto, del nostro futuro come nazione passerà da quegli appuntamenti. In tal senso, pensate che il timing e la dinamica irrituale dell’offensiva di Del Vecchio in seno a Mediobanca, a sua volta controllore di quella vera cassaforte del Paese che risponde al nome di Generali, siano casuali e alieni alle attenzioni francesi?