Avete presente la partita a scacchi con la morte ne Il settimo sigillo? Ecco, è quanto sta accadendo silenziosamente sui mercati. Lasciate stare indicatori eclatanti come gli indici azionari, i veri guai sono altrove. Come altri sono i canarini nella miniera da tenere sotto controllo, poiché i loro colpi di tosse da qualche giorno stanno diventando continui. E sempre più soffocati. L’epicentro? Nemmeno a dirlo, l’Europa. Intesa questa volta sia come Ue che come Regno Unito. E proprio da quest’ultimo è interessante partire, visto che mercoledì la Bank of England ha deciso di intervenire direttamente con acquisti di titoli a lungo termine per placare gli aumenti fuori controllo dei rendimenti sui Gilts, i titoli di Stato britannici. Di fatto, mandando in stand-by il processo di normalizzazione monetaria reso necessario da un’inflazione in doppia cifra e da una sterlina ai minimi storici assoluti.
Nel suo comunicato, la Banca centrale britannica parlava di significative disfunzioni nel mercato obbligazionario, tali da generare un rischio materiale per la stabilità finanziaria. Insomma, un qualcosa che non permetteva ritardi nell’intervento. E se questo grafico ci mostra come la decisione abbia generato un immediato calo di 40 punti base sul rendimento benchmark, stabilizzando anche il cross della sterlina, paradossalmente la variabile più preoccupante non è quella legata alla durata di quello che storicamente appare un effetto placebo, se non coordinato con altre Banche centrali, bensì il retroscena pubblicato dal Financial Times rispetto alla reale motivazione che sottendeva un intervento di natura così emergenziale. Ovvero, la rotta da kamikaze assunta negli ultimi giorni dai prezzi dei bond sovrani britannici, un asset noto per la sua stabilità, ma che mercoledì ha vissuto un inusuale balzo intraday del 14% degno di un Paese emergente, ha infatti generato a tempo di record richieste di coperture per i fondi pensione, i quali hanno visto erose le proprie posizioni difensive da inflazione e tassi di interesse in aumento e stavano per fronteggiare un effetto a valanga di margin calls.
Detta chiaramente, se la Bank of England non fosse intervenuta, il rendimento del Gilt decennale mercoledì mattina sarebbe potuto salire dal 4,5% a un potenziale 7%: a quel punto, il 90% dei fondi pensione britannici si sarebbe ritrovato senza collaterale. E spazzato via. Praticamente, la Lehman di Mr. Smith. Ingestibile. Soprattutto a fronte di una dinamica dei prezzi fuori controllo, cui il nuovo Governo ha opposto come ricetta un thatcheriano quanto controproducente taglio delle tasse. Che il mercato ha infatti salutato spedendo la sterlina in purgatorio. Il problema, ora, è quello del cortocircuito. Con la Bank of England in modalità Qe, dove andranno a finire le dinamiche dei prezzi?
Perché al netto di un mondo che crede al potere taumaturgico di idiozie come l’helicopter money, proseguire con i rialzi del costo del denaro e contemporaneamente espandere lo stato patrimoniale acquistando bond equivale a togliere l’acqua con il secchio da una piscina, mentre la si riempie con l’idrante. Insomma, questa volta lo tsunami finanziario ha sfiorato soggetti di mercato direttamente legati all’economia reale, piani di accantonamento che basavano la loro solidità proprio sul profilo risk-free del debito sovrano di Sua Maestà e sulla prudenza della Bank of England nel maneggiare la kriptonite monetaria.
E quanto appena accaduto Oltremanica apre scenari di riflessione anche sul Continente, soprattutto alla luce degli ultimi due giorni di febbre post-elettorale dello spread sul nostro Btp. Ma non basta. Perché quest’altro grafico ci mostra la seconda ragione che ha sotteso l’emergenzialità di quella mossa: stando a calcoli di Deutsche Bank, il 26% di tutti i mutui immobiliari britannici è governato da tassi variabili. I quali stavano per subire un drastico re-pricing.
Per intenderci, il giorno prima dell’intervento della Bank of England, Lloyds Bank offriva un tasso fisso a 2 anni al 4,95%, assumendo una ratio prestito su valore del 60-75% dell’immobile, livello che saliva al 5,29% nel caso di un loan-to-value del 90-95%. Di fatto, un tasso di affordability immobiliare così basso da aver pareggiato quello raggiunto durante il crash del 2008 e che si poneva solo a un paio di punti percentuali dall’abisso raggiunto a fine anni Ottanta. Ma se gli orfani di Sua Maestà piangono e non solo per il lutto reale, gli europei non hanno certo di che compiacersi. Se questo grafico mostra infatti come l’attuale sentiment dell’eurozona operi da proxy oscuro per le necessità di correzione al ribasso ulteriori dello Stoxx 50 prima di vedere la luce, a far paura realmente è altro. Per l’esattezza, il mercato obbligazionario.
E per una volta non è lo spread dei bond sovrani a far sudare freddo, stante una Bce che mentre alza i tassi in tutta fretta continua a espandere implicitamente il bilancio con il reinvestimento titoli del Pepp, pur mascherato da concambio fra core e periferia. A fare davvero paura è questo: stando a calcoli di Bloomberg, i costi di rifinanziamento del debito per le aziende europee, saliti al massimo storico.
La differenza che il comparto corporate deve pagare per vendere i propri bond comparato ai coupons da corrispondere sul debito esistente è infatti appena salita a 250 punti base, livello mai raggiunto da quando – nel 1998 – si è cominciato a tracciare la dinamica. In altre parole, le aziende devono pagare 2,5 milioni di euro in più per ogni 100 milioni di euro presi in prestito sul mercato. Il rischio? Una catena di default. I quali ovviamente partono da una base pressoché a zero, stante i costi di finanziamento inesistenti garantiti da un decennio di Qe sotto varie insegne. Ma che ora rischiano di subire un effetto palla di neve a causa del combinato fra crisi energetica e rialzo dei tassi di interesse. Non a caso, gli strategist di ING Bank calcolano che il tasso annuale di default nell’eurozona sia destinato a salire al 5,6% del totale da meno del 2% attuale.
E non basta: alla fine del 2021, l’indice di Bloomberg che traccia il comparto dei junk bond europei contemplava nella categoria distressed debt soltanto due titoli. Oggi sono circa 180, un quarto dei 750 totali. All’inizio di quest’anno, la ratio fra costo di emissione e coupons del debito esistente era di 90 punti base favorevole alla prima opzione. Il che significa che nell’arco dei quasi 10 mesi conclusisi venerdì scorso, il mercato europeo ha patito un aumento di 339 punti base. Il record precedente in tal senso risaliva al 1999 e si fermò a 100 punti base. E con una Bce che ha appena ribadito la sua volontà di proseguire speditamente con ulteriori rialzi dei tassi, la dinamica non può che rischiare l’overdrive.
E anche per le aziende che decidono di proseguire con il rifinanziamento dei loro bond, nonostante i costi, le prospettive sono decisamente poco incoraggianti. Delle 138 tranches di syndicated bonds venduti in Europa da inizio settembre, il 96% era composto da nomi appartenenti al rating dell’investment grade. Ma, nonostante questo, il premio medio corrisposto è stato di 12 punti base, quasi il triplo del medesimo periodo dello scorso anno.
Ecco cosa si muove sotto il pelo dell’acqua del mercato. Ecco perché stiamo giocando una partita a scacchi con la morte, mentre i nostri futuri governanti già pongono veti e ricatti a 72 ore dalla vittoria elettorale.
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