E se la guerra Donald Trump ce l’avesse in casa? Questo articolo nasce come prologo a quello che intendo dedicare nei giorni prossimi all’avvicinamento Cina-Europa in materia di contrasto ai dazi. Ovvero, la possibilità che l’Ue – intesa come corpi intermedi che realmente la governano e non la facciata burocratica della Commissione – abbia già giocato un ruolo attivo in tal senso.
Se così fosse, pronti a una reazione Usa contro quello che è percepito non solo come il nuovo, inaccettabile proxy di Pechino. Ma anche il suo pericoloso ventre molle.
Ora date un’occhiata al grafico. Ci mostra come nell’arco di 48 ore della scorsa settimana, l’appeal interno in termini di investimento del debito Usa sia mutato. Le aste di Treasuries a 3 e 10 anni, infatti, hanno visto un netto calo della domanda interna. Mentre quella a 30 anni di venerdì l’ha vista esplodere.
Questione di maturity? O di manine? Questa seconda ipotesi si sostanzia, a mio avviso, perché se dopo questo risultato, il resto dei rendimenti obbligazionari è rimasto pressoché placido come un lago alpino, l’S&P è passato invece da 5.300 a meno di 5.200 in pochi minuti. Sell-off, insomma. Come se le equities scontassero drasticamente la delusione per un rendimento in asta non volato alle stelle e quindi non in grado, dopo i due precedenti su scadenze più brevi, di confermare lo stato di allerta anche sulle lunghe scadenze e obbligare così la Fed a rompere gli indugi. Ed entrare in campo.
Ma chi sono gli attori degli acquisti Direct? Principalmente, Primary Dealers. Tradotto, le grandi banche. O colossi come Citadel. Collocatori e sottoscrittori. Insomma, soggetti che con la Fed hanno un rapporto privilegiato. Da mantenere, coltivare e coccolare. Salvo fare i capricci come nel settembre 2019, facendo esplodere la crisi repo con un ben orchestrato sirtaki di riserve cominciato fin dal giugno precedente.
Insomma, la Fed sta operando da contropotere, da opposizione di supplenza al netto di un Partito Democratico non ancora pervenuto o in stato confusionale dopo il KO di Kamala Harris? Wall Street sta giocando su due campi contemporaneamente? E la Fed, quale strategia sta approntando? Un ritardo controllato in stile marzo 2020 oppure la volontà di portare la Casa Bianca al policy error da ego ipertrofico del Presidente, di fatto operando un teletrasporto in stile Star Trek rispetto alle conseguenze in capo a un nuovo crash? Per essere chiari, fine dell’alibi dell’eredità di eccessi equity della Bidenomics e inizio del logoramento dell’attuale Amministrazione, in vista del dibattito esiziale sul debt ceiling.
Ora date un’occhiata a questi altri due grafici. Sempre nella settimana appena conclusa, il rendimento del Treasury a 10 anni ha vissuto l’impennata più drastica su quell’arco temporale di riferimento dal 2001. E, soprattutto, nella medesima settimana si è infranta la correlazione col dollar index, qualcosa che normalmente suona come un campanello d’allarme. Sintomo cioè che alla manina interna occorre sommare anche quella esterna della vendita di massa di Treasuries.
Solo la Cina? Questo, come anticipato, sarà argomento di un altro articolo. Ora, una domanda: se davvero all’interno del corpaccione del potere Usa – inteso come politica, finanza e industria che giocano nello stesso golf club – è in atto un simile scontro, chi manovra realmente il timone? Il mitologico Deep State ormai sdoganato anche dalla stampa autorevole e non più trattato come materia da complottisti, da che parte sta e con quale divisa sta giocando?
Sullo sfondo, la solita partita a scacchi. L’unica che davvero conta. Lo so, ormai conoscete a memoria la questione. Ma occorre davvero fissarla come fosse l’unico Sole di riferimento, cui tutto gira attorno. Gli Usa hanno circa 36 trilioni di dollari di debito pubblico, il cui costo annuale in meri interessi è di 1,2 trilioni. Di fatto, già in per sé in traiettoria di insostenibilità. E cosa unisce il dibattito attuale su import e deficit commerciali a questa dinamica macro, cosa rende strategica la pantomima, al punto da averla fatta approdare ovunque come argomento di discussione?
Di quei 36 trilioni di cosiddetto stock, il debito negoziabile – ovvero acquistabile e vendibile sul mercato – ammonta a circa 28 trilioni, di cui a sua volta il 20-25% va a scadenza annualmente. Uno quota che potrebbe definire standard a livelli di maturity media. Da qui a fine anno in corso, quell’ammontare varia fra 5,6 e 7 trilioni di dollari. Ma con un’aggravante. Ciò che andrà rifinanziato, ovviamente, avrà come riferimento in premio di rischio – il cosiddetto rendimento che viene corrisposto all’investitore che acquista e detiene i bond di Zio Sam – l’attuale prezzatura di mercato.
Ovvero, ad esempio nel caso del Treasury a 10 anni (il cosiddetto benchmark perché riferimento globale stante la denominazione in dollari), oggi siamo attorno al 4,5%. Mentre per quello a 30 anni siamo al 4,8%. Qual era la scommessa inconfessata di Donald Trump attraverso la campagna di attacco lancia in resta su dazi e tariffe? Innescare un rallentamento della crescita economica tale da generare i presupposti di una recessione lampo e quindi di un conseguente crollo delle aspettative sull’inflazione.
Detto fatto, un simile scenario avrebbe dovuto spingere a preferire i bond ai titoli azionario e, in questo modo, farne calare i rendimenti e aumentare il prezzo. Ovvero, garantire una compressione a tavolino del costo da corrispondere per collocare quei 5,6-7 miliardi di debito da qui a fine anno, stante una precedente stagione di cosiddetto roll-over (ovvero, il debito non scade ma viene appunto re-immesso sul mercato con negoziazione del premio, al fine di garantire una sorta di flusso continuo di cassa del Governo) che si è compiuto in pieno regime di tassi quasi a zero come risposta alla pandemia del 2020.
Passare dal 2% al 4,5% per rifinanziare il medesimo titolo a 10 anni equivale a confessare al mercato l’insostenibilità del proprio stock. Con le ovvie conseguenze di rating e di costo di finanziamento che questo imporrebbe per il futuro. E per il ruolo stesso del dollaro come valuta di riserva mondiale.
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