Non sono giorni sereni per l'Ue che rischia anche di veder precipitare la propria situazione alquanto rapidamente
Spero che vogliate scusarmi per il francesismo di fine settimana: siamo ufficialmente fottuti. In quanto europei, intendo. Un’avvertenza: proseguendo nella lettura di questo articolo troverete pane duro per i vostri denti. E materiale in grado di rovinarvi il weekend, meglio saperlo subito. Io declino ogni responsabilità, in caso decidiate di proseguire.
Cominciamo. Mentre la Germania segna un -1,4% su base mensile negli ordinativi industriali di maggio, primo calo da 4 mesi a questa parte e nettamente al ribasso rispetto alle aspettative di -0,2%, ecco che la notizia che quasi certamente non assurgerà nemmeno al rango di ennesimo corollario sinofobico di qualche quinta colonna Usa a Bruxelles. Eppure, è terribilmente simbolica.
Da oggi e per 5 anni, Pechino imporrà tariffe fino al 34,9% sul brandy originato nell’Unione europea. Sì, il brandy. O cognac. Direte voi, sarebbero queste le notizie in grado di sconvolgerci e giustificare l’allarmistico incipit di questo articolo?
Attenzione. Perché nonostante si tratti di una nicchia di mercato decisamente ristretta e che non vede l’Italia in prima fila nell’eventuale danno commerciale (qui pesa il vino), ecco che i due principali produttori francesi hanno ottenuto una bella esenzione. A tempo di record. E sapete in nome di cosa? Del fatto che, avendo un Governo che quando c’è da fare lobby nazionale non è secondo a nessuno, ha chiaramente detto a Pechino che un trattamento simile sarebbe stato ingiusto, poiché punitivo di una lotta in sede europea legata al comparto dell’auto elettrica che non dovrebbe colpire tutti gli altri. E indiscriminatamente tutti i vari Paesi membri. Alla faccia della solidarietà.
Detto fatto, ecco che qualcosa emerge. E un qualcosa che deve far riflettere. Mentre la Germania vede andare in pezzi la prospettiva di un prodromo di recupero di competitività, sintomo che il Governo Merz ora metterà la quinta non solo a livello di moltiplicatore bellico del Pil tramite il warfare ma anche per quanto riguarda le emissioni comuni di debito che dovrebbero finanziare quegli investimenti, la Francia sta già adottando una sua autonoma politica estera. Nei fatti, totalmente contraria al mandato della Commissione. Prima la telefonata fra Macron e Putin dopo 4 anni di silenzio diplomatico e insulti, poi l’implicita conferma di una diplomazia parallela e sotterranea fra Parigi e Pechino che negli ultimi giorni deve essersi fatta a dir poco pressante.
Già vi basterebbe? Eh no, qui il meglio deve ancora venire.
Perché se da un lato questo lancio di agenzia di ieri mattina ci mostra come, contemporaneamente, la Cina abbia formalizzato la sua pax commerciale con gli Usa, alla faccia delle pantomime che solo a Bruxelles ritengono credibili (o, forse, sono pagati per contrabbandare come tali presso le opinioni pubbliche), questo grafico mostra l’ulteriore chiodo nella bara per l’economia Ue. La stessa che un decano della Bce come il buon De Guindos l’altro giorno ha definito messa male a tal punto da rendere totalmente inutile l’ipotesi di un nuovo, ulteriore taglio dei tassi.
Il famoso accordo commerciale con il Vietnam che Donald Trump ha sbandierato l’altro giorno e che la Cina ha finto di accogliere con disappunto, di fatto altro non è altro che un by-pass proprio del commercio bilaterale fra i due giganti, utilizzando Hanoi come dogana. Di fatto, esattamente come nel regime di falsi dazi della prima Amministrazione Trump, Cina e Usa si spartiranno il mondo. All’epoca a colpi di esenzioni merceologiche mascherate da waivers temporanee, oggi attraverso il porto franco vietnamita. Non a caso, vi invito a notare come le grandi catene retail di quel Paese stiano ottenendo prestiti a condizioni pressoché di regalo dalle grandi banche e dal private equity occidentali.
Ultimo caso proprio ieri mattina, la chiusura ufficiale di un bel private credit loan da 240 milioni di dollari ottenuto da Vincom Retail da parte, fra le altre, di Deutsche Bank, Hsbc e SeaTown. E per chi non lo sapesse, il Vietnam è la fabbrica a cielo aperto del mondo per quanto riguarda la manifattura di abbigliamento popolare. Piaciuta la favoletta di Usa e Cina che si picchiano come tamburi per decidere chi governerà il globo nel prossimo decennio o ventennio? Bene, ora godiamoci la realtà dei due vasi di ferro che si abbracciano per schiacciare il vaso di coccio europeo. La stessa realtà che, archivio di questa testata alla mano, il sottoscritto vi sta preannunciando dall’elezione di Donald Trump in poi. Alla faccia dei dazi.
E attenzione, perché se per caso il 10 luglio passasse la sfiducia a Ursula von der Leyen, facendo precipitare le istituzioni europee nel caos dell’ingovernabilità de facto e nel vuoto di potere, il giochino sarebbe perfetto. Ognuno si regoli di conseguenza. Soprattutto in vista del delirio da Eurobond. Perché a quel punto, il liberi tutti diplomatico già in atto in Francia diverrà politica estera istituzionalizzata del mors tua, vita mea. Per tutti e 28 i membri.
Non mi pare che il nostro Paese sia attrezzato per un simile scontro. Anzi, nemmeno che ne sia conscio. Sarà per questo che Confindustria l’altro giorno si è svegliata dal suo torpore e ha sparato cifre di impatto di dazi e tariffe doppie rispetto a quelle diffuse finora e certificate dal Governo? Non solo, prezzate e incorporate nei calcoli del Def. Sarà per questo che il ministro Giorgetti sembra più pessimista di Savonarola da qualche giorno a questa parte?
Il 9 luglio scade la deadline degli Usa per raggiungere un accordo commerciale con l’Europa, il giorno dopo voto di sfiducia all’Europarlamento. Forse il redde rationem stavolta è alle porte. Certamente, il pivot che può affossare l’Ue.
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