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Home » Esteri » Ucraina » SPY FINANZA/ Il rischio default dell’Ucraina di cui non si parla

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SPY FINANZA/ Il rischio default dell’Ucraina di cui non si parla

L'Ucraina non appare in grado di rimborsare 500 milioni ai creditori internazionali e questo potrebbe portare al default

Mauro Bottarelli
Pubblicato 29 Aprile 2025
Zelensky, Ucraina

Volodymyr Zelensky, Presidente Ucraina a Kiev (ANSA-EPA 2025)

Sta iniziando la grande illusione. Sta iniziando la fase centrale del processo di rana bollita collettiva. Basta guardare i social. Basta guardare, ahimè, la stampa. Quella autorevole. Al netto dell’aver trasformato il funerale di un Pontefice in una sorta di gioco della sedia da festa delle medie, giusto per garantire agli orfani della Schadenfreude un nuovo oggetto di scherno nell’esclusione dal posto a sedere di Emmanuel Macron, voi siete proprio consci di come stia realmente evolvendo la situazione là fuori?


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Ad esempio, sapete che non più tardi di giovedì scorso, Governo ucraino e creditori internazionali non hanno trovate un accordo rispetto ai 500 milioni che Kiev dovrà sborsare loro a inizio giugno, in ossequio al volutamente irresponsabile contratto legato a warrants indicizzati al Pil con cui l’Ucraina dovrà fare i conti da qui al 2041? Capito qual è il grado di solidarietà verso Zelensky e soci, quella vera e non le pagliacciate iconoclaste e al limite del blasfemo in favore di telecamera e teleobiettivo?


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Quei certificati, infatti, sono stati stipulati da Kiev con l’implicita certezza che le condizioni contenute non sarebbero mai state rivendicate dalla controparte, grazie allo status di intoccabilità da vittime dell’odio russo garantito dall’Amministrazione Biden. Non a caso, fino all’arrivo di Donald Trump, Kiev e il suo registro di guerra conoscevano solo voci di entrata. E anzi, la retorica occidentale – con l’Italia a menare grandemente la grancassa in tal senso – sosteneva che, grazie alle sanzioni, sarebbe stata la Russia ad andare in default e il rublo a tramutarsi in carta da parati.


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Vi invito alla lettura dell’ultimo numero dell’Economist per trovare conferma ufficiale di quanto questa previsione fosse una cantonata. Ma qui non si può dire, essendone il tuttora intoccabile Mario Draghi il principale promulgatore e diffusore. Quei warrants non pagano interessi e capitale: si comportano come i nostri Btp indicizzati all’inflazione, in questo caso facendo riferimento al tasso di crescita del Paese invece che a quello dei prezzi. Garantito, chiaramente, dalle munifiche rimesse anti-Putin dell’Occidente. E dalla certezza che Sleepy Joe avrebbe ammansito e tacitato sul nascere qualsiasi richiesta di reale adesione alle condizioni capestro stipulate.

Perché Kiev ci è andata giù pesante con le promesse, pur di ottenere soldi dai creditori esteri e dai mitologici mercati. Tanto era certa di non pagare. O di farlo a babbo morto. Invece, una volta che il Pil del Paese torna alla quota pre-bellica e il tasso di crescita sale al 3%, le medesime condizioni contrattuali si tramutano automaticamente in salasso. E questo in maniera potenziale ed esizialmente progressiva per le casse statali fino alla scadenza. Fissata da contratto appunto nel 2041.

Perché fino al prossimo anno, il contratto prevede che il pagamento non possa eccedere lo 0,5% del Prodotto interno lordo. Ma a partire dal 2026, non esisterà più un limite massimo che operi da tetto di spesa per interessi su quel contratto. Anzi, in base a quanto pattuito all’atto della stipula per incamerare più credito possibile a fronte di golosissimi premi di rischio, Kiev potrebbe dover pagare una somma pari al 15% di ogni tasso di crescita superiore al 3%, una volta che questo venga ponderato all’inflazione. E se mai superasse il 4%, si potrebbe arrivare addirittura al 40%.

Ora quel contratto comincia a richiedere i primi oneri. Come anticipato, solo 500 milioni da corrispondere a inizio giugno. A fronte di decine e decine di miliardi introitati da Kiev negli ultimi due anni.

Come mai non vogliono pagare? Al netto del comportamento poco corretto, vuoi dire che in cassa non ci sono 500 milioni di dollari? Il Pil pre-bellico dell’Ucraina era di circa 120 miliardi di dollari. Ovviamente, la guerra lo ha fatto crollare. Ma quanto hanno tamponato quel gap gli aiuti internazionali fra Usa e Ue, prima che Donald Trump si tramutasse del Big Ben di Enzo Tortora e dicesse stop, rompendo le uova nel paniere all’intero meccanismo moneymaker (propagandisti di Usaid in testa)?

Vuoi dire che a Kiev chi gestisce la cassa statale non accantona fondi per il servizio del debito estero, ma si concentra solo sulla spesa corrente, al fine di garantire un effetto Lauro all’ormai scricchiolante leadership? Vuoi dire che fanno un po’ a occhio, come permetteva loro Sleepy Joe, magari un pochino ricattabile per qualche laptop di troppo del figlio?

E lo stesso mondo che esulta per quella foto storica a San Pietro, è conscio che i mercati a cui fa riferimento stanno potenzialmente minacciando Kiev di inadempienza contrattuale e contestuale attivazione della clausola di default su quegli warrants per soli 500 milioni di tranche? Noi che dovevamo sudare per Kiev, ora siamo pronti a darla in pasto ai venditori di credit default swap per l’argent de poche, a fronte di quanto le abbiamo garantito negli ultimi 24 mesi, senza contare il lucro cessante della fine del rapporto energetico privilegiato con Gazprom?

Ma si sa, le photo opportunities servono a questo. Mostrare in maniera plateale all’opinione pubblica il dito, affinché non guardi la Luna. Perché se dietro le quinte dell’ipocrisia mediatrice si muovevano gli intransigenti interessi legati a un contratto, proprio mentre Donald Trump e Volodymir Zelensky sceglievano il posto più sobrio e discreto per parlare a quattr’occhi, ecco che Vladimir Putin annunciava come il Kursk fosse totalmente liberato. E la sconfitta militare e sul campo di Kiev, ormai alle porte.

Titoli dei giornali italiani? Putin, pronto a trattare senza pre-condizioni. Grazie, ha ottenuto tutto ciò che voleva militarmente o diplomaticamente ex ante, prima ancora si sedersi al tavolo bilaterale! Nessuno ve lo ha detto, perché a voi doveva interessare solo il primo miracolo di Francesco. Blasfemia e ipocrisia che vanno a braccetto. Tutt’intorno, una strana esplosione nel porto iraniano che opera da chokepoint fra Golfo Persico e Oceano Indiano, molto simile a quella del 4 agosto 2020 al porto di Beirut. La stessa Beirut che, casualmente, domenica è tornata a essere bersaglio dei raid israeliani.

Si erano dimenticati di abbattere un palazzo-arsenale di Hezbollah. Proprio adesso. Tutto in 48 ore. Anzi, meno. Di cui a noi, resta solo una foto. Storica, ovviamente.

Missione compiuta. La rana è bollita a dovere.

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Tags: Donald TrumpMario DraghiJoe BidenVolodymyr Zelensky

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