Apparentemente, quella del 21 di maggio per i mercati è stata una giornata senza particolari scossoni. Quantomeno stando alle cronache autorevoli, quelle che hanno come unico punto di riferimento Wall Street.
In realtà, l’esplosione dei rendimenti obbligazionari ha generato un precedente che occorre analizzare. Perché la giornata del 21 maggio, in realtà, potrebbe aver sancito un cambio di impostazione.
Tutto ruota attorno a questi due grafici, i quali sono strettamente correlati. Il primo ci mostra il picco di rendimento del Treasury Usa a 20 anni e il secondo la reazione contemporanea dello Standard&Poor’s 500.
In meno di mezz’ora, l’indice newyorchese ha perso 80 punti. Lasciate stare l’epilogo dell’after-hours. Per una volta, la reazione pavloviana sembra essere quella più genuina. E, soprattutto, capace di operare da proxy.
Entriamo nel dettaglio. Quando da noi erano le 13 e i rendimenti già erano ampiamente in ebollizione, il Tesoro Usa metteva in asta 16 miliardi di dollari di controvalore in titoli a 20 anni. Normalmente, una non notizia. Ordinaria amministrazione di un Governo che emette debito per finanziarsi in base a un cronoprogramma di aste. Insomma, fosse stato un qualsiasi altro 21 maggio, il mondo si sarebbe sentito chiedere da Washington se fosse interessato a detenere debito di Zio Sam per un paio di decenni. E ovviamente avrebbe risposto di sì. Mercoledì, no.
O meglio, quel sì è stato condizionato al premio di rischio più alto corrisposto dal dicembre 2024 su quella scadenza. La cosiddetta tail dell’asta. Più è alta, più l’emittente deve pagare per piazzare la sua carta, fissando al massimo intraday lo yield ufficiale. E quella è stata la più alta da inizio anno.
Il risultato pratico è stato che per collocare l’ammontare, l’asta ha dovuto fissare un rendimento del 5,047%, Ovvero, 24 punti base più di quanto offerto solo il mese scorso. La riluttanza del cosiddetto mercato ad acquistare carta di Zio Sam è certificata da quei numeri. E signori, il quadro in cui va a inserirsi tutto questo lo conosciamo, vero? Da qui a fine anno, 7 trilioni di debito su cui operare roll-over. Che diventano 9 trilioni nell’arco temporale dei 12 mesi.
Se i presupposti sono questi, alla luce di quei rendimenti in asta, inutile pensare che da qui all’estate non arrivi un qualcosa a scompaginare le carte e schiacciare quei premi su livelli di sostenibilità per il rifinanziamento. Nel momento stesso in cui è stato comunicato il risultato dell’asta, il rendimento del titolo a 20 anni sul secondario è passato da 5,03% a 5,12%, mentre il decennale è volato a 4,61% e il titolo a 30 anni al 5,10%.
Ma ecco che, a differenza del solito, anche Wall Street mal digerisce il risultato di quell’asta che, normalmente, sarebbe passata nella totale indifferenza. Come anticipato, l’S&P’s 500 perde 80 punti in meno di mezz’ora. E anche il Dow Jones e il Nasdaq sbandano.
Signori, il vero downgrade degli Usa si è compiuto mercoledì 21 maggio attorno alla nostra ora di pranzo. Non venerdì scorso, quando Moody’s ha portato a termine il suo compitino. Di fatto, Wall Street con la sua reazione tanto inusuale, quanto drastica, ha sancito la fine dello status risk-free del debito statunitense come benchmark per i prestiti e come collaterale. Una fine che ovviamente è temporanea.
Possiamo dire, la fine di un ciclo di indebitamento facile post-Lehman che da oggi dovrà trovare nuovi strumenti per proseguire il suo schema Ponzi. Perché chi partecipa a quello stesso giochino manipolato, ora ha paura di bruciarsi le dita. E chiede di più. Un di più che sta divenendo insostenibile. E Wall Street lo ha ricordato.
Perché ricordatevi sempre che quando sale il rendimento del Treasury Usa, di fatto salgono tutti i benchmark di finanziamento. Mutui, prestiti corporate, carte di credito, rate dell’auto e del mutuo scolastico. Tutto. E ora guardate questa terza immagine, la quale ci mostra l’aumento su base annua delle cosiddette serious delinquencies legate appunto alle principali voci di finanziamento e di credito al consumo. Le stesse appena citate. Con quella definizione si fa riferimento a ritardi nei pagamenti oltre i 90 giorni, tanto per avere un riferimento prospettico.
Wall Street reagendo in quel modo ha voluto ricordare a tutti come quei rendimenti fuori controllo non siano soltanto un ostacolo pericoloso per il rifinanziamento dello stock di debito a scadenza, ma anche un canarino nella miniera delle difficoltà della Main Street nel pagare le spese ordinarie. Mutui, rate, carte di credito. Un domani, il dentista. Poi, la spesa al supermarket. In un Paese il cui Pil al 70% si basa su consumi personali. E che dopo mesi di flip-flop, ora non può nemmeno più fare affidamento sulla pantomima di dazi e tariffe per giustificare un’inflazione mai calata realmente, se rapportata a salari, risparmi e potere d’acquisto.
Oltretutto al netto di una Fed che invece da settembre scorso ha cominciato a tagliare i tassi per far respirare i bilanci delle banche, sotto stress per 600 miliardi di unrealized losses dovute proprio al costo del denaro ritenuto troppo alto rispetto ai modelli di VaR da Qe perenne a cui erano iscritti proprio titoli di Stato. Un enorme cane che si morde la coda.
Tradotto? Sta saltando il Sistema. E lo certifica che questa quarta immagine: l’ultima volta che lo stress sul mercato repo di finanziamento aveva toccato il livello attuale, Donald Trump fu costretto ad annunciare l’invio della delegazione di sherpa del commercio in Svizzera per trattare con la Cina. Sbugiardando settimane di retorica bellicista verso Pechino e annunci di aliquote fantascientifiche nei confronti delle esportazioni del Dragone.
Insomma, preparatevi a un coniglio dal cilindro nelle prossime ore. Ma in versione pachiderma, questa volta. Perché per quanto nessuno se ne sia accorto, il 21 maggio 2025 ha cambiato tutto. O, quantomeno, molto.
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