La contabilità macabra del coronavirus non accenna a diminuire di intensità nel suo dato di crescita: sempre nuovi casi di contagio, sempre più decessi, tanto che la mortalità in soli 25 giorni di pandemia ufficialmente dichiarata ha già superato quella della Sars. Perché allora, da una settimana a questa parte, i mercati – cinesi in testa – continuano a salire? Visti i tempi in cui viviamo, la risposta appare intuitiva: più le cose vanno male, più le fabbriche restano chiuse e inviano segnali di shock sulla catena globale di fornitura offerta dalla Cina a tutte le majors del mondo, più le Banche centrali dovranno intervenire a supporto delle economie. La solita, vecchia e ritrita formula: il vero vaccino al coronavirus è il Qe, inutile stare a cercare risposte nei laboratori di ricerca.
E i numeri sono davvero spaventosi, più che altro perché mettono in prospettiva la magnitudo di intervento già in atto, nella pressoché totale mancanza di consapevolezza delle opinioni pubbliche. Guardate questi due grafici, il primo dei quali ci mostra l’andamento comparato di mercato azionario cinese rappresentato dal Chinext (le small caps tecnologche) e rendimento del bond benchmark di Pechino prima e dopo l’intervento della Pboc del 3 febbraio scorso, quello più massivo in vista della ripresa di tutte le attività dopo la pausa per il Capodanno: la dinamica non pare offrire particolare spazio all’interpretazione. Un’inversione netta e totale.
Il secondo grafico, però, mette il tutto in prospettiva, svelando il controvalore messo in campo dalla Banca centrale cinese per ottenere questo ennesimo risultato frutto di doping: nelle ultime quattro settimane, la Pboc ha iniettato nel sistema finanziario qualcosa come oltre 2 triliardi di yuan netti, il massimo storico record! Insomma, siamo passati dalla retorica del bucare la bolla creditizia a qualsiasi costo – anche quello di una catena di default aziendali, con tanto di bail-in per gli investitori – a un diluvio totale di liquidità. Il tutto, ovviamente, solo per garantire che i mercati non vadano fuori controllo, visto che con la gran parte delle fabbriche chiuse appare totalmente assurdo porre in essere misure di stimolo della produzione o dei consumi.
E sapete come ha commentato la situazione il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi? “Stiamo dimostrando di avere la capacità di minimizzare l’impatto dell’epidemia e di mantenere il tasso di crescita sostenuto e stabile della nostra economia”. Vero. A quale costo, però? Oltre 2 triliardi di yuan, solo nelle prime settimane di intervento. Il massimo storico. E poi, cosa accadrà? Si proseguirà su questa strada, forse? E dove andrà a finire il deficit strutturale del Paese? E l’indebitamento, visto che fra le misure allo studio c’è un ampliamento dei controvalori di debito che i governi locali possono emettere per finanziarsi?
Direte voi, di fronte all’emergenza, prima si tampona la situazione, poi si pensa a stabilizzarla. Vero. C’è però un problemino, emerso ieri con la pubblicazione degli ultimi dati relativi al tasso di inflazione e condensato in questi altri due grafici: dopo il calo del mese di dicembre, -5,6%, i prezzi della carne di maiale sono infatti saliti dell’8,5% in un solo mese, portando l’aumento su base annua al +116%! E il driver del bene di consumo più diffuso in Cina ha innescato una dinamica più ampia, con l’intero paniere dei prezzi degli alimentari salito del 20,6% nel mese di gennaio, come mostra il secondo grafico. Siamo di fronte a un altro record, il balzo a livello mensile più marcato di sempre. E al netto del new normal che vede il mondo governato dalle Banche centrali e dai loro programmi di Qe, la logica economica minima impone una domanda: con l’inflazione già oggi fuori controllo, la Pboc potrà continuare ad allentare la sua politica monetaria come fatto nelle ultime quattro settimane per sostenere i mercati finanziari? Se sì, dove andrà a finire il già magro potere d’acquisto dei cittadini cinesi?
Un interrogativo non da poco, perché parliamo di un Paese in quarantena generale e con i cittadini che vivono da settimane in una sorta di legge marziale non imposta ma sostanziale, a causa del rischio contagio. Se oltre all’ulteriore restrizione della libertà personale, al timore per la salute e all’impossibilità di lavorare, si unisse anche una fiammata fuori controllo dei prezzi dei beni di sostentamento necessari e più diffusi, cosa potrebbe accadere? A quale livello di rischio arriverebbe la tenuta stessa della stabilità sociale della Cina?
Forse, questa rappresenta la prospettiva peggiore che un lockdown prolungato del Paese per emergenza sanitaria potrebbe portare con sé. Perché se la pandemia ha “garantito” a Pechino la risoluzione drastica ancorché temporanea dei problemi di tenuta sociale a Hong Kong e Taiwan, un ridimensionamento netto e al ribasso del potere d’acquisto nelle aree rurali e più povere del Paese potrebbe portare a un ampliamento emergenziale delle aree sensibili che necessiterebbe di un qualcosa molto simile alla legge marziale tout court per essere gestito. Soprattutto, in tempi di social network che sfidano la censura di stampo novecentesco del regime come le nuove tecnologie e con tutti gli occhi del mondo addosso per la gestione a dir poco irresponsabile della pandemia, a partire dai primi focolai “nascosti” già dal mese di dicembre.
La sfida politica più grande per Xi Jinping pare stagliarsi all’orizzonte. E il secondo attacco in meno di tre giorni, diretto e circostanziato, di Pechino contro l’Italia dovrebbe allarmarci non poco: cosa c’era, nascosto fra le pieghe dell’ufficialità, in quel memorandum siglato poco più di un anno fa a Roma? Quali rischi ritorsivi corriamo, se per caso Pechino dovesse davvero schierarsi in modalità di resistenza a più fronti di pressione, interni ed esterni, economici e geopolitici?
Attenzione a perdersi troppo in contabilità ospedaliera, i veri rischi di questa pandemia potrebbero risiedere altrove. In ambiti che non conoscono vaccini o misure cautelari. E dove le conseguenze rischiano di essere permanenti.