Giuro che oggi sarò breve, voglio evitare di appesantirvi l’ultima domenica dell’anno. Questa notizia, però, non poteva attendere. Partiamo da un antefatto: avete notate che, esattamente come accadde con la polemica sul Mes dopo il rinvio della ratifica da parte del Consiglio europeo, la vicenda della Banca Popolare di Bari ha perso decisamente di intensità e interesse, di appeal come dicono quelli che parlano bene? Certo, c’è stato di mezzo il Natale. Certo, c’è stata di mezzo la maratona parlamentare sulla manovra. Certo, ci sono state le dimissioni del ministro Fioramonti. Ma, fate un attimo mente locale: non si scatenarono fuoco e fiamme, dopo la decisione di salvare l’istituto pugliese? Non pareva che la Commissione sul sistema bancario 2.0 fosse l’unica priorità del Paese? Non abbiamo assistito a una sorta di assedio del fortino di Bankitalia da parte dei Cinque Stelle? Eppure, puff: tutto sparito.
Forse, la cosa non era così grave. O forse, la realtà è un po’ differente da quella a metà fra la ricostruzione semplicistica e il populismo d’accatto che ci sono stati propinati per una settimana. Volete sapere qual è la realtà, globale in questo caso, ma proprio per questo esemplificativa del momento? Bene, veniamo all’oggi di stretta attualità. Come sapete, siamo ormai ai record dei record in Borsa, una vera corsa all’oro epocale. Prendete Wall Street, ad esempio: lo Standard&Poor’s 500 sta per concludere il suo miglior anno dal 1997. E i bond? Anche le obbligazioni vanno forte, miglior annata dal 2014. C’è però qualcosa che stona: quelli del 2019, infatti, saranno ricordati come i migliori 12 mesi dal 2010 anche per l’oro. Ovvero, per il bene rifugio per antonomasia che tesaurizza le aspettative di crisi.
Ma quale crisi può incombere su un mondo che vede le Borse brillare in questo modo? Ve lo mostra questo grafico, basato sui dati di fine anno pubblicati venerdì sera. E cosa ci dice? Che per le banche, a livello globale, il 2019 è stato l’anno con il maggior numero di tagli occupazionali dal 2015. Ma come, i meccanismi di trasmissione per antonomasia del sistema finanziario non festeggiano questa annata da record e, anzi, inanellano esuberi?
Già, si tagliano i costi. E i motivi sono sostanzialmente tre. Primo, un’economia che non è affatto il riflesso reale dell’illusione borsistica. Due, adattamento forzato del comparto all’automazione e alla digitalizzazione. Insomma, più macchine e meno uomini. Terzo, i bilanci non sono quelli che sembrano. Anzi, non lo sono mai stati. Nell’anno che sta per concludersi, più di 50 gruppi bancari nel mondo hanno annunciato tagli combinati pari a 77.780 posti di lavoro, un dato che nelle tracciature recenti è secondo solo ai 91.448 del 2015 appunto. E fin qui, già c’è ben poco da festeggiare. Anzi, ci sarebbe da porsi qualche domanda seria, anche perché con quest’ultima infornata arriviamo alla bella cifra di oltre 425mila persone licenziate negli ultimi sei anni. L’ultima in ordine di tempo è stata Morgan Stanley, la quale nel giorno della rottura di quota 9mila punti da parte del Nasdaq, ha comunicato 1.500 tagli, il 2% della sua forza lavoro.
Ma sono questi due grafici che devono farci riflettere (e preoccupare): di tutti quegli esuberi, il sistema bancario europeo fa capo a quasi l’82% del totale. E il secondo grafico, parla chiaro. In cima alla lista, ovviamente, c’è la tremebonda Deutsche Bank ma subito dopo ecco svettare l’italica, ancorché vocazionalmente internazionale, Unicredit. E poi, a cascata, altri grandi nomi. Quasi il gotha del sistema creditizio europeo.
Ora, è inutile nascondersi dietro un dito: rispetto ai competitor americani, gli istituti dell’Ue hanno faticato non poco dal risollevarsi dalla grande crisi finanziaria del 2008. Negli Usa, infatti, dopo il crollo di Lehman Brothers, il Governo ha dato vita a programmi ad hoc e anche l’aumento dei tassi ha aiutato le banche a recuperare profittabilità. Qui, invece, i tassi negativi sui depositi stanno erodendo ulteriormente i margini, costringendo addirittura molti soggetti a trasferire quel costo sui correntisti. Eppure, qualcosa non torna. Per anni, dopo l’incubo del 2008, abbiamo ripetuto – io per primo – il mantra in base al quale quella crisi era tutta americana e il mondo aveva pagato il costo dell’azzardo morale di Wall Street, divenuto negli anni la regola.
I subprime, in effetti, erano un fenomeno tutto made in Usa. Ovviamente, la finanziarizzazione totale del sistema e il rischio di controparte li hanno internazionalizzati, tramutandoli in una liabiality per tutto il mondo. C’è però dell’altro, da ricordare. Ovvero, il fatto che se le cartolarizzazioni allegre sono state il frutto amaro caduto dall’albero della finanza a stelle e strisce, le banche europee hanno regalato al mondo lo scossone del biennio 2011-2012, quello della crisi dei debiti sovrani e del default della Grecia. Tutti sanno, poiché non è certo un mistero, che furono le banche tedesche e francesi le più esposte al debito ellenico, quindi quelle che imposero l’agenda e le tempistiche del “salvataggio”, al fine di non perdere tutto ma limitare il danno all’haircut negoziato per i creditori privati. Loro, nel frattempo, avevano scaricato tutto ai gonzi in cerca dell’occasione della vita.
L’Italia, ad esempio, era esposta pochissimo alla Grecia. Ci fu poi la necessità di salvare le banche spagnole, le quali non avevano alcun nesso causale con i guai di Atene, ma erano esposte a dismisura alla bolla immobiliare creata dal governo Zapatero e dal suo presunto boom progressista (e molto keynesiano): il contagio comunque ci fu, nel senso che gli istituti iberici contagiarono direttamente quelli portoghesi. L’Europa pagò, circa 45 miliardi e anche la Spagna fu salvata. Alla fine, l’incubo del 2011-2012 è passato. Siamo, in effetti, ormai nel 2020. Com’è possibile che, dopo due mega-cicli di aste di rifinanziamento a lungo termine e un Qe mostruoso in nome del Whatever it takes, siamo ancora a questo punto?
Cosa avevano e forse ancora hanno nei bilanci le banche del Vecchio continente, per essere responsabili dell’82% dei tagli occupazionali nel comparto a livello globale, pur di raschiare il barile del contenimento dei costi? E poi cessione di rami operativi, fusioni, acquisizioni disperate o “forzate”: cos’hanno fatto in questi anni le banche europee, invece che erogare credito e gestire risparmio? Hanno scommesso, hanno giocato a fare le banche d’affari. E, soprattutto, in molti casi hanno operato come bancomat del Tesoro del proprio Paese, tramutandosi in acquirente marginale del debito pubblico. Esattamente la battaglia che qualche mente geniale, in ossequio alla sua presunta volontà di tutelare i cittadini-risparmiatori, ha posto in essere nell’ambito della disputa sul Mes, minacciando le barricate di fronte all’ipotesi di porre un limite alle detenzioni di titoli di Stato.
Capite che chi porta avanti questa battaglia, moralmente, è responsabile di quei licenziamenti appena comunicati in via ufficiale, quasi al pari dei manager che li hanno ordinati? Vi rendete conto che viviamo in un mondo che non ha nemmeno più la lucidità di capire ciò che è intuitivo, ovvero che stiamo festeggiando un rally artificiale che sta facendo la gioia dei soliti noti? Vi rendete conto che le banche, ovvero soggetti che se la Borsa va bene dovrebbero essere i primi a festeggiare, stanno invece celebrando l’anno record 2019 con licenziamenti di massa per riuscire a far quadrare almeno un pochino i bilanci? Certo, il progresso è progresso e invocare una sorta di luddismo 2.0 contro la digitalizzazione e l’automazione sarebbe degno di qualche sottosegretario a 5 Stelle. E, occorre essere onesti, negli anni della vacche grasse (anzi, obese) che ci hanno portato all’epilogo del 2008, le banche si sono sovradimensionate, assumendo 50 dipendenti dove ne sarebbero bastati 20. O anche meno. Ora, però, occorrerebbe fare i conti. E non tanto con quanto hanno ottenuto dalla Bce dal 2014 in poi, praticamente a costo zero e pur così non riuscendo a mettersi in pari con i buchi pregressi ma piuttosto su come realmente stanno le cose. Occorrerebbe uno stress test ma reale, questa volta, non le pagliacciate dell’Eba che hanno promosso le banche greche fino a due mesi prima del loro fallimento, così come quelle spagnole pre-salvataggio: ora basta, in nome e per conto di chi la crisi del comparto la sta pagando davvero sulla sua pelle.
Sarà un processo doloroso? Il male occorre guardarlo in faccia e combatterlo, altrimenti ti divora da dentro. Salteranno delle teste, perché dal cilindro mitizzato dell’epoca da Whatever it takes emergeranno i conigli di condotte sciagurate e di conclamate incapacità? La testa di un manager deve valere come quella di un impiegato o di un analista junior, altrimenti non si ripartirà mai. Quindi, se deve rotolare, che rotoli. Nessuno è indispensabile, i numeri che vi ho elencato poc’anzi lo confermano ampiamente. Ma attenzione, perché questi stessi numeri fanno paura. Perché se davvero l’economia non ripartirà, come ha appena certificato la Bce e il rally innescato dalla Fed dovesse interrompersi o, peggio, andare fuori giri, il sistema bancario europeo non reggerebbe una nuova crisi sistemica. Meglio saperlo, da subito. E chiedere ai politici di fare qualcosa, di chiedere conto, di imporre l’obbligo della chiarezza. Invece che perdere tempo con Commissioni d’inchiesta degne del Bagaglino o difese ad oltranza di Bankitalia che puzzano lontano un miglio di compromissione.
C’è poco da scherzare con quei numeri, il giocattolo è rotto. E lo scotch della Bce, per quanto resistente, in caso di un nuovo incendio globale non è di amianto.