A questo punto, c’è da chiedersi una cosa. Almeno a mio modesto avviso. E occorre farlo con grande franchezza.
Mentre la macchina della narrazione ansiogena cominciava a scandire il suo conto alla rovescia verso la data di introduzione dei dazi, ovvero quel 2 aprile spacciato al mondo come figliastro dell’Armageddon, ecco a voi l’apertura del sito del Wall Street Journal di ieri mattina. Giusto in tempo per spedire in verde tutti i futures di Wall Street.
Signore e signori, in attesa dell’ennesimo rinvio per valutare meglio la strategia, ecco che già abbiamo contezza della pressoché certa esenzione da quel regime (ancora in attesa di scattare) di settori marginali come automotive e microchip. Stando al quotidiano finanziario, la Casa Bianca starebbe rivedendo le sue mosse e vorrebbe concentrarsi unicamente sul lato reciproco e ritorsivo. Ovvero, se tu non mi tocchi certi prodotti, io farò lo stesso. L’altrimenti, tarallucci in tavola. Praticamente, l’armistizio prima che scoppi la guerra.
Cosa vi dicevo al riguardo e non da ieri, ma dal primo giorno di minacce e intemerata da parte del funambolico, ciarliero ma anche furbissimo inquilino di Pennsylvania Avenue? Davvero pensavate che con il Pil basato al 70% sui consumi personali, l’America possa permettersi dazi e tariffe come quelle che ci hanno raccontato finora? E sugli scaffali di Walmart cosa mette, jeans molto patriottici, ma che, se prodotti in Ohio da operai Wasp con tutte e tutele del caso, costerebbero 200 dollari al paio?
In tal senso, però, occorre sempre stare all’erta. Perché per un allarme strategico, un al lupo, al lupo gridato per secondi fini di dissimulazione, ci sono altre notizie che sarebbe grave non sviscerare. Ad esempio, l’allarme lanciato in solitaria dalla Reuters con un articolo esclusivo: Some European officials weigh if they can rely on Fed for dollars under Trump. Ovvero, come mostra questo grafico, in caso di una nuova crisi sistemica, le banche europee potranno ancora contare sulle swap lines di finanziamento in dollari garantite finora dalla Banca centrale Usa?
Tradotto, la Casa Bianca potrebbe utilizzare la Federal Reserve e non il Grana Padano o il foie gras come strumento di pressione sull’Europa? Perché porsi questo interrogativo, però, cari lettori? C’è forse all’orizzonte qualche avvisaglia di turbolenza nel settore bancario del Vecchio continente di cui siamo all’oscuro? O qualche rischio di contagio via derivati, magari? Vedi l’esposizione degli istituti italiani, francesi ma soprattutto spagnoli al carry trade fra lira turca e dollaro, posizioni long aperte con il badile quando quel cambio si aggirava attorno a 9. E non a 38 come alla chiusura di venerdì scorso. Chissà.
Di certo c’è che, stando a un recente studio della Bce, il 17% del finanziamento delle banche dell’eurozona è in dollari. A occhio e croce e sempre a mio modestissimo avviso, una sottostima di quelle pericolose da far passare come messaggio. Ma ancora più pericoloso appare, a mio avviso, il fatto di non avere ben presente quale sia il quadro d’insieme. Dopo i 114 miliardi di perdita operativa del 2023, infatti, lo scorso anno la Fed ha registrato un altro -77,6 miliardi di dollari. Il dato ufficiale è stato reso noto sempre venerdì scorso. Ma, ovviamente, è passato sotto silenzio. Perché era già in moto la macchina ansiogena delle tariffe.
Cosa significa? Volgarmente parlando, tutto ciò si sostanzia nel fatto che, se la Banca centrale Usa utilizzasse verso se stessa lo stesso regime regolatorio che – formalmente – applica alle banche commerciali, oggi staremmo raccontando la sua marcia a tappe forzate verso un bailout in stile Credit Suisse il 19 marzo del 2023.
E per favore, non continuate a dare il benché minimo credito a chi vi racconta che le Banche centrali non falliscono e non possono fallire, perché stampano gratis tutto il denaro di cui hanno bisogno. Cazzate, scusate il francesismo ma trovo che doni efficacia al concetto.
Il Qe non è affatto gratuito e senza effetti. Perché se da un lato gonfia bolle azionarie che, al momento dell’esplosione, costeranno comunque al contribuente sotto varie forme, dall’altro quel gap enorme registrato dalla Fed (e anche dalla Bce per il secondo anno di fila e, per la prima volta in assoluto, quest’anno anche dalla Bundesbank) viene colmato senza apparenti conseguenze attraverso l’applicazione delle tassa più odiosa e invisibile: l’inflazione. Che pagano tutti, ma, ovviamente, soprattutto i redditi più bassi.
Ora, date un’occhiata a questo terzo e ultimo grafico: ci mostra l’impatto cumulativo di quella perdita operativa. Anzi, perdite operative. Cumulativo. Post-Covid, casualmente. Ovvero, post-tsunami di liquidità e sussidi a pioggia. E poi, inflazione fuori controllo.
Ve la ricordate, la mitica data-dependency utilizzata sia per rinviare i tagli dei tassi, ma, soprattutto, per comprimere ulteriormente il potere d’acquisto, stante il comodissimo babao della spirale prezzi/salari? Unire i puntini, no, troppo complesso? O troppo in grado di mostrare come il Re del Qe che risolve tutto e del debito che non esiste siano entrambi nudi come vermi?
E poi, se la Fed viene comunque percepita come il soggetto sempre pronto e in grado di salvare il mondo da un altro 2008, forse il problema non sta nell’equivoco di fondo e nella percezione auto-alimentante di un colosso dalle rotative d’argilla spacciato invece come backstop di ultima istanza? Forse per questo fra le banche europee si teme – giustamente ma, giova ripeterlo, mantenendo ben segreto il motivo reale di quell’apprensione prospettica – il ridimensionamento o lo stop tout court delle swap lines emergenziali della Fed e non le bizze commerciali di un Donald Trump che smentisce prima ancora di annunciare?
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