“Adoravo l’intelligenza” e “Mi sono innamorato della verità”: è in queste due espressioni icastiche che si possono rintracciare i pilastri della personalità e della lunga intensa esistenza di don Giovanni Barbareschi (Milano, 1922-2018), sacerdote e partigiano.
Pur essendo stato uno dei protagonisti più influenti della Resistenza milanese, la sua prima biografia – dal titolo Siate liberi! Vita e resistenza di don Giovanni Barbareschi (Àncora) ha visto la luce solo nel 2025. L’autore è Giacomo Perego, milanese, classe 1989, che ha conosciuto don Giovanni da liceale a 14 anni per poi riscoprirlo in una frequentazione familiare in anni più recenti.
Perego espone con stile quasi “poliziesco”, ma sempre accompagnato da rigore storico e documentale, l’incredibile vicenda umana e resistenziale del protagonista, superando il racconto frammentario e aneddotico di cui finora ci si era accontentati.
Giovanni entra nel seminario diocesano di Venegono ma ne viene espulso nel 1942, a 20 anni. Due sono le ragioni ipotizzate per tale allontanamento, la prima sostenuta dallo stesso protagonista: essere stato sorpreso di notte, dopo il silenzio, a leggere Dostoevskij sotto le lenzuola con una torcia! Era un venir meno alle severe regole che non poteva essere tollerato. L’altra più probabile è che il giovane, fervente nella pietà, studioso e vivace, fosse vicino ad ambienti ostili al regime, che avesse contatti o frequentazioni con le “Aquile randagie”.
Era questo un gruppo di scout milanesi che, nonostante la soppressione voluta dal regime fascista, continuava ad operare in clandestinità e al quale don Giovanni poi sarà sempre molto legato.
Fatto sta che nel gennaio 1943 egli entrerà nel seminario di Gorizia, ma spesso lo troviamo presente in Lombardia, a Milano ma non solo, dove si impegna in vario modo per sovvenire alle nuove drammatiche necessità che la guerra produce, come aiutare gli ebrei o i militari alleati ad espatriare. Un giorno si presenta al cardinale Schuster e gli dice: “Vengo a comunicarle che da domani mattina entro a far parte della Resistenza”, al che il prelato non può che rispondere: ”Segui la tua coscienza”.
A Milano ben presto nasce l’Oscar (Opera Soccorso Cattolica Aiuto Ricercati), che vede la partecipazione con Barbareschi di vari preti, di universitari della Fuci, di ragazzi degli oratori e dell’Azione Cattolica. L’Oscar si allarga a macchia d’olio e aumentano i contatti con le formazioni partigiane a cui molti di quei giovani aderiscono.
Sempre a Milano nel febbraio 1944 don Giovanni ed altri (Teresio Olivelli, Carlo Bianchi, ecc.) danno vita ad un nuovo giornale antifascista, Il Ribelle. Esce come e quando può, apartitico ma ispirato al cattolicesimo sociale e vicino alle formazioni partigiane delle Fiamme Verdi. Ovviamente per gli autori e i sostenitori, dal tipografo alla rete dei volenterosi distributori, si avvicina l’ora della verità e della persecuzione.
In occasione della Pasqua 1944 il gruppo del Ribelle compone la bellissima preghiera “Signore, facci liberi”, in cui il coraggio e le risorse necessarie per vivere ed eventualmente morire in un momento così tremendamente drammatico diventano oggetto di domanda. “Ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”, si conclude la preghiera.
Il 10 agosto 1944 Barbareschi, inviato da Schuster, si reca a portare l’estrema benedizione ai 15 morti di piazzale Loreto: erano antifascisti prelevati dal carcere di San Vittore e fucilati in risposta ad un attentato partigiano in viale Abruzzi. Tre giorni dopo viene ordinato sacerdote a Como.
L’impegno di don Giovanni in particolari e delicate missioni attesta la sua collaborazione con i vertici della Resistenza e lo mette in contatto con vari personaggi di spicco. Così scopriamo ad esempio il rapporto intenso e amichevole che si instaura con Guido Ucelli di Nemi e la sua famiglia. Ciò dimostra tra l’altro come la lotta per la libertà fosse trasversale a tutte le classi sociali.
Barbareschi subisce ben tre arresti, con relativi durissimi interrogatori e torture, nei quali mai tradisce i compagni di lotta, poiché non dimentica mai di essere prima di tutto un prete. “Essere prete è stato tutto per me. È stato il senso più vero e profondo della mia esistenza”. Così scriverà nel suo testamento, nel 2002. Questa sua “parola ultima” è un documento ineguagliabile di spiritualità, grondante gratitudine e gioia.
Il libro si conclude con la fine della guerra. Troppo presto!, dicono gli estimatori sia dell’autore sia del protagonista, auspicando un secondo volume che completi l’opera.
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