Alla vigilia dei funerali di papa Francesco non è mancata l’ennesima occasione per il riaccendersi dello scontro politico intorno all’80esimo anniversario della Liberazione, su cui pesano ancora troppe letture faziose.
Ma in questo mese di aprile ricorrono anche altre memorie controverse, che con una certa lettura “rivoluzionaria” della Resistenza conservano tuttavia un loro legame sotterraneo. Si tratta degli omicidi “sfuggiti di mano” a giovani che nell’aprile di cinquant’anni fa si posero sul crinale violento di un antifascismo “militante” che non esitava a ricorrere alla chiave inglese, come nella tragica morte di Sergio Ramelli per mano di coetanei di Avanguardia Operaia (uno dei quali si toglierà la vita pochi mesi dopo), o del ricatto, come nel caso dell’ignobile rapimento di Carlo Saronio per mano dei suoi compagni di Potere Operaio.
Il 1975 fu anche un anno di svolta nella strategia delle Brigate Rosse: se già prima alcune azioni dimostrative lasciarono una scia di sangue che portò agli arresti di Curcio e Franceschini, il nuovo Comitato esecutivo delle BR, ora sotto la direzione operaista di Mario Moretti, optava più decisamente per l’individuazione di obiettivi “simbolici”, che poi erano persone in carne e ossa, da colpire dapprima alle gambe, in seguito in modo letale.
Da quel momento fu un crescendo di attentati sanguinari. Gli “anni di piombo” provocarono tra il 1975 e il 1984 un totale di 1.144 vittime e solo nel biennio 1977-78, che culminò con l’omicidio di Moro e della sua scorta, furono 531 gli attentati, prevalentemente di matrice brigatista. Sullo sfondo, le stragi nere che da piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) alla stazione di Bologna (2 agosto 1980) – dove la verità giudiziaria sembra ancora distante dalla verità storica e lascia ferite e interrogativi aperti – insanguinarono l’Italia, provocando 113 vittime e 378 feriti.
Ma da dove veniva tutto questo odio, perseguito contro ogni principio di umanità? Un episodio tra i tanti ci suggerisce qualche riflessione. Quando il 19 marzo 1980 alcuni militanti di Prima Linea uccisero il giudice Guido Galli nel corridoio al secondo piano della Statale di Milano, la figlia Alessandra si stava recando a lezione nelle stesse aule universitarie e, richiamata dal clamore, lo riconobbe nel corpo inanimato. Nei giorni seguenti l’ex leader del Movimento Studentesco Mario Capanna, già eurodeputato, si affrettò a dichiarare che nessuno doveva azzardare l’idea che il terrorismo fosse tornato là dove era nato. Excusatio non petita?
Chi ha frequentato la Statale in quegli anni non può dimenticare il clima di pesante egemonia culturale e di intimidazione fisica che regnava allora verso chi osava esprimere pubblicamente opinioni in contrasto con la linea stalinista del Movimento Studentesco (dal 1976 Movimento dei Lavoratori per il Socialismo). La violenza era norma, in particolare verso gli studenti cattolici di CL, che venivano perfino fotografati all’uscita dalla messa in cappella, ma memorabile fu anche uno scontro molto duro con i militanti di Avanguardia Operaia che una mattina provocò il crollo dell’ampia vetrata all’ingresso di via Festa del Perdono.
Dopo la breve vampata libertaria del Sessantotto esplosa inizialmente all’Università Cattolica, il MS-MLS di Capanna si era fatto carico in Statale dell’inquadramento del movimento degli studenti entro gli schemi dell’ideologia marxista-leninista, fortemente dogmatizzata, con simpatie tanto verso Mao quanto verso Stalin.
Uno degli slogan più gridati nei cortei era “Viva il compagno Giuseppe Stalin, terrore dei fascisti, terrore dei borghesi”. La violenza entrava nell’apparato di un impianto ideologico che attribuiva ai dirigenti del Movimento quel compito di avanguardia delle masse che Lenin aveva attribuito al suo partito bolscevico. Si predicava una futura rivoluzione che, rileggendo Marcuse, poneva tra i soggetti rivoluzionari gli stessi studenti, considerati come “proletariato intellettuale”.
La violenza politica faceva dunque parte della teoria e della prassi di quei movimenti, ma la genesi pratica delle Brigate Rosse e di Prima Linea non era lì. Il terrorismo rosso, come teoria e pratica, vide piuttosto convergere in un unico fiume diverse schegge e correnti di movimenti diversi, dall’operaismo di Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Autonomia Operaia e Lotta Continua al terzomondismo di ex cattolici come Curcio, al comunismo reggiano di Franceschini, che appunto volle farsi erede della Resistenza concepita come “rivoluzione incompiuta” (simbolica e un po’ mitologica è la narrazione della consegna al gruppo reggiano di una pistola tenuta nascosta da un ex partigiano rosso.
Eppure possiamo senz’altro dire che la costellazione dei movimenti extraparlamentari che si collocavano tra marxismo dogmatico e pulsioni mistiche anarco-sindacaliste (Toni Negri: “Quando calo il passamontagna sul viso, è allora che mi sento in comunione con la classe operaia”) costituì il brodo di coltura per chi decise, a un certo punto, che la Rivoluzione non poteva essere più procrastinata, scegliendo la via della clandestinità.
Che cosa mancò a questi giovani, quale vuoto di umanità li portò a prendere così tragicamente sul serio l’insegnamento di “cattivi maestri”? Sul Corriere della Sera del 1° agosto 1975, Pier Paolo Pasolini rispondeva a Moravia, che aveva recensito per l’Espresso un film in cui un padre scopriva di avere un figlio assassino. Moravia ne concludeva che a quel padre non restava altro che “cercare di capire il figlio”.
Pasolini reagì: “E dopo che l’ha capito? (…) Cosa dovrebbe fare? Accontentarsi di averlo capito? Ma l’accontentarsi di capire implica imparzialità e indifferenza. È l’agire che qualifica. E un padre che ama agisce (…). Io guardo i figli, cerco di capirli e infine agisco: agisco dicendo loro quella che io credo la verità sul loro conto” (Lettere luterane).
Ecco, al di là delle analisi storico-sociologiche, un aspetto balza all’occhio: in quei giovani che presero la via della violenza pulsavano cuori desolati, disperati. Sembrava che mancassero padri disposti ad amare così, in un corpo a corpo con gli errori dei figli e con i propri. Quella nata nel primo decennio del dopoguerra era una generazione alla ricerca di se stessa, senza più riferimenti solidi, incapace di riconoscere dei padri, o con padri incapaci di agire.
Spesso quei loro padri non parlavano, ammutoliti da tragedie enormi vissute al tempo della guerra, o presi dal lavoro immane imposto dalla ricostruzione. Ma se si rifiuta un padre o se lui stesso viene meno, o se ne cerca un altro, o si finisce col trovare un facile surrogato nell’ideologia. Nessuno è indenne dal vuoto che può albergare in un cuore non coltivato.
Qualche giorno fa passeggiavo per un parco della periferia milanese dove sono cresciuto. In quei prati ci recavamo da ragazzi con i nostri motorini: uno spiedino al würstel, le ragazze e una chitarra per cantare. Si cantava Battisti. A un certo punto della mia passeggiata, ho udito in lontananza un gruppo di giovani con la chitarra. Cantavano: “Che anno è? Che giorno è? Questo è il tempo di vivere con te…”. Mi ha colpito questo fatto inatteso: a cinquant’anni dalla sua composizione, i giovani di oggi si riconoscono ancora, come noi allora, in una canzone che termina con queste parole: “L’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è”. Il cuore dell’uomo non cambia.
Fu forse proprio per trovare il coraggio di vivere che la generazione degli anni Settanta, resa sensibile ai conflitti sociali, alle ingiustizie, alle guerre di un mondo bipolare, si coinvolse con generosa ingenuità nei movimenti di contestazione cercandovi nuovi padri, dopo aver messo radicalmente in discussione quelli che li avevano cresciuti.
Talvolta li trovarono, in figure carismatiche come don Giussani o padre Turoldo, così diversi ma così simili per passione umana e cristiana. Altri cercarono maestri di nonviolenza come fu Lanza Del Vasto, il discepolo occidentale di Gandhi che nel sud della Francia aveva fondato il suo ashram. Altri ancora trovarono grandi padri politici, come furono Enrico Berlinguer e Aldo Moro.
E molti altri si gettarono nell’utopia della rivoluzione proletaria. I più radicali ne furono travolti, provocando e trovando morte e disperazione. Altri, dopo la presa di distanza da ideologie crollate e speranze deluse, trassero da quelle esperienze un nuovo impegno politico e culturale.
Rimase, a tutta quella generazione, il senso di una responsabilità personale e collettiva di fronte ai grandi processi della storia. Per inciso, la sinistra radicale francese ci arrivò prima, quando i nouveaux philosophes lessero Solženicyn e se ne lasciarono scalfire in profondità.
Che insegnamento possiamo ricevere oggi, da quegli anni, così fecondi di musica e cultura, e insieme così duri? Come il cardinale Bagnasco ha ricordato in questi giorni, una delle emergenze che siamo chiamati a guardare è la crescente violenza tra i giovanissimi, questa volta senza alcun ancoraggio ideologico. La violenza per la violenza. Se negli anni Settanta furono proposte risposte sbagliate al desiderio giovanile di spendersi per gli altri, oggi, dopo la caduta delle vecchie ideologie, siamo in balìa di un mercato pervasivo che ha tolto ai giovani perfino il desiderio stesso, e con questo la speranza di cambiare almeno un poco il mondo.
Così concludeva Pasolini quel suo articolo del 1975: “Questa cronaca vi vuole sconvolti in una crisi di valori, perché il potere, creato in conclusione da noi, ha distrutto ogni cultura precedente, per crearne una propria, fatta di pura produzione e consumo e quindi di falsa felicità. La privazione dei valori vi ha gettato in un vuoto che vi ha fatto perdere l’orientamento e vi ha umanamente degradati. La vostra ‘massa’ è una ‘massa’ di criminaloidi a cui non si può più parlare in nome di niente”.
Per non gettare i nostri figli in un nichilismo gaio e disperato, per dare loro il coraggio di vivere, perché possano far trovare spazio all’universo “dentro” sé stessi, come evocava Battisti, oggi più che mai sono necessari dei padri che siano testimoni della loro personale ricerca di un senso del vivere e del morire.
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