“Doctor, I love you!” sento dall’altro capo del mio cellulare. È la voce di una ragazzina. Non la riconosco… chi potrebbe essere, la figlia di uno dei miei amici? Mentre cerco di fare mente locale, penso che è strano per una ragazzina rivolgersi a me come “medico” – io curo solo neonati prematuri che non parlano e tantomeno telefonano…
A questo punto, quasi indovinando quello che mi passa per la testa, la vocina dice: “Dottoressa, sono Alejandra”. E li mi si apre un universo di ricordi. Sono commossa fino alle lacrime.
La vedo per come me la ricordo, molti anni addietro: una piccola bimba di 800 grammi con l’intestino completamente distrutto da una grave infezione. Dopo l’intervento chirurgico il chirurgo mi dice: “abbiamo aperto e richiuso, l’intestino è tutto rovinato. Morirà presto, l’unica cosa che puoi fare è offrire conforto”. Al ritorno in reparto io ed i suoi genitori la guardavamo con timore e tremore, loro pieni di un’incredibile speranza, mentre io temevo che non potesse arrivare al mattino dopo. Mi ricordo che avevo pensato “solo un miracolo la può salvare” e ricordo anche la telefonata alla mia carissima amica Doni, che di fronte al mio senso di impotenza e anche alla mia sfiducia propose di chiedere l’intercessione a don Luigi Giussani, da poco scomparso.
Tredici anni fa “il miracolo è successo”, contro ogni aspettativa medica. Alejandra è stata tra la vita e la morte, sostenuta con la ventilazione meccanica e antibiotici e nutrita con delle flebo, per lungo tempo. E il miracolo si è compiuto poco per volta, coi tempi di Dio.
Mentre continuo a pregare per lei con la Doni, decido di rimanere il suo medico personale per tutta la sua degenza in terapia intensiva, per il tempo che le sarà concesso. E questo tempo è stato incredibilmente molto più lungo di quello che avevo previsto. A 2 mesi di vita l’infezione è stata debellata, a 3 mesi ha imparato a respirare da sola, siamo riusciti a nutrirla con fleboclisi ricche di calorie, cosi che a 6 mesi è stata dimessa dall’ospedale. Anche a casa il solo modo per nutrirla era la nutrizione parenterale attraverso un catetere venoso centrale. Quando è andata a casa pesava circa 3 chili, ma il suo intestino era solo 5 centimetri.
Durante i primi 3 anni di vita torna in ospedale alcune volte per riposizionare il catetere venoso centrale e per interventi chirurgici di “allungamento dell’intestino”, così che il suo intestino diventa prima di 20 e poi di 40 centimetri. Può iniziare a mangiare qualcosa e la mamma dice che lei ama la torta con la crema, che però appena entra dalla bocca, esce dopo qualche minuto dal capo opposto. Non importa, Alejandra se la gusta tanto quella torta, come anche le patatine fritte…
La mamma che non ha conoscenze mediche e il papà elettricista hanno imparato a prendersi cura di lei, a cambiare la nutrizione parenterale ogni sera con i guanti sterili e lei non ha mai avuto un’infezione in 13 anni!
In questi anni ho sentito spesso la sua mamma per chiedere notizie e sapere dei suoi progressi. So che va a scuola ed è brava, parla l’inglese bene ma anche lo spagnolo, che è la lingua dei suoi genitori. È seguita attentamente dal pediatra e da un gruppo di medici qui nel mio ospedale che stanno a poco a poco diminuendo la nutrizione per via venosa e aumentando la sua nutrizione col cibo normale. Forse tra qualche anno ce la farà ad alimentarsi senza la flebo.
Come commentare questa vicenda? In fondo si potrebbe dire che io ho solo fatto il mio dovere di neonatologa, che lei è stata una paziente fortunata, che la sua famiglia l’ha davvero seguita bene e che i medici alla Columbia University sono eccezionali. Certo, tutto questo è vero, ma c’è di più.
La profonda verità di questa “storia a lieto fine” me l’ha fatta intuire Alejandra con la sua affettuosa telefonata, ma soprattutto me la suggerisce il Santo Natale che celebriamo in questi giorni.
Infatti, cos’è il Natale se non la comunicazione del fatto che l’impossibile succede e che l’Amore vince?
La dichiarazione di affetto di Alejandra con quella telefonata che mi ha fatto commuovere è per me il sorriso del bambino Gesù e l’abbraccio di don Giussani che mi guarda dal Paradiso.