Le notizie sulle stragi del 1992 si susseguono velocemente. La Procura di Caltanissetta ha ordinato la perquisizione di tre abitazioni e di una cassetta di sicurezza del magistrato Giovanni Tinebra, scomparso nel 2017. Il magistrato, iscritto a una loggia massonica, era stato procuratore della Repubblica nel periodo delle indagini sulla strage di via D’Amelio. L’inchiesta è stata considerata “il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana” (Riccardo Lo Verso, Il Foglio).
L’esecutore della strage fu ritenuto, infatti, Vincenzo Scarantino, che non aveva affatto il profilo criminale corrispondente a un’azione di tale complessità e gravità. Il depistaggio, oltre che grave, fu anche protratto nel tempo, e scomparve persino la cassetta di un’intervista rilasciata da Scarantino nel 1995 a Studio Aperto, in cui il modesto contrabbandiere raccontava che la sua confessione era stata estorta con una vera e propria tortura.
Il colonnello dei Carabinieri Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino, di recente ha affermato al Tg1 che il giudice era a un passo dall’arresto del Procuratore di Palermo Pietro Giammanco. L’allora capo della procura, peraltro, non aveva informato Borsellino di una notizia importante: l’arrivo del tritolo per ucciderlo.
Giuseppe Martorana de Il Giornale di Sicilia, poi, nei giorni scorsi ha dichiarato, ripetutamente, di aver visto il terrorista nero Stefano Delle Chiaie a Palermo tra febbraio-marzo del 1992, e qualche giorno dopo di averlo rivisto al giornale, accompagnato da un avvocato, forse identificabile con l’avvocato Stefano Menicacci (servizio di Report).
Ultimamente è stato trovato anche un documento in cui Borsellino dimostrava di essere attento alle dichiarazioni del pentito Alberto Lo Cicero. Lo Cicero, in passato, aveva segnalato la presenza a Palermo del sovversivo neofascista a chi di dovere.
Il 1° luglio, infine, la Cassazione ha riconosciuto la colpevolezza di Paolo Bellini in ordine alla strage di Bologna del 1980. Nelle indagini della procura di Firenze, Bellini risulta in contatto diretto con la mafia siciliana. Per Giovanni Brusca fu proprio il neofascista a indirizzare gli attacchi della mafia contro il patrimonio artistico italiano, tramite Antonino Gioè, poi misteriosamente “suicida”.
Tali notizie si uniscono alla storia del mafioso Luigi Ilardo, fonte del colonnello Michele Riccio. Nelle investigazioni svolte da Riccio sui mandanti esterni delle stragi, Ilardo aveva un ruolo importante. Fu ucciso, senza avere una protezione adeguata, grazie “a una soffiata” ai killer, prima che iniziasse a mettere nero su bianco i nomi degli istigatori delle stragi. Ilardo era ritenuto molto attendibile, poiché aveva già fatto catturare latitanti di calibro.
I tanti tasselli del complesso puzzle indicano un quadro d’insieme: probabile coinvolgimento di ruoli apicali di uomini dello Stato non fedeli alle istituzioni, presenza di associazioni segrete anticostituzionali, vicinanza di eversori neri e di mafiosi. Sistemi criminali compartecipi, sotto una regia comune da individuare, in azione per eseguire le stragi del 1992 e del ‘93.
Pensiamo, innanzitutto, alla strage di Capaci. Il giudice Falcone poteva essere ucciso a Roma, con un agguato meno complicato nell’esecuzione. Si scelse, invece, l’azione eclatante e dirompente. La distruzione doveva avvenire proprio a Palermo, prima della nomina del Presidente della Repubblica: luogo e tempo non casuali, dunque. La mafia aveva già usato in passato autobombe, basti pensare all’uccisione del valoroso giudice Rocco Chinnici.
Tuttavia, una cosa è uno scoppio in una situazione statica, mentre cosa ben diversa è colpire un bersaglio in movimento, cioè un’auto blindata accompagnata da altre due auto di scorta, sia pure con un’alta quantità di esplosivo. Si tratta di un’azione terroristica ad alta competenza (posizionamento del tritolo e tempo esatto di esecuzione) che implica un’esercitazione pregressa con una capacità tecnica provata e specifica. Oltre alla destrezza realizzativa, era necessario reperire sia la quantità necessaria dell’esplosivo che la sua qualità, per garantire l’efficacia dell’atto criminale di natura anche ingegneristica.
È davvero difficile pensare alla sola azione di Cosa nostra, che avrebbe dovuto avere un poligono di tiro in dotazione dove poter riprodurre lo scenario, provare e riprovare un’azione difficile con la ragionevole certezza di non fallire e di non essere scoperti. Non è stato trovato neppure il chimico esplosivista, in grado di fabbricare e miscelare la bomba dirompente (o le bombe, in considerazione di chi sottolinea la presenza di un misterioso furgone bianco al lavoro sopra il manto stradale) e adeguata all’effetto voluto.
I tecnici incaricati dell’esame dell’esplosivo (ritrovato poi in altre stragi) hanno verificato nella carica usata la presenza di tritolo RDX (utilizzato in ambito militare) e nitrato d’ammonio. Si tratta, dunque, di una concentrazione pensata secondo una macchinazione ingegnosa: un rafforzamento della carica per generare un esplosivo di estrema potenza.
Per quanto riguarda le stragi che uccisero i due magistrati e le loro scorte, è stato anche appurato che non furono offerti dispositivi di protezione come i necessari bomb jammers in grado di prevenire attentati. La strada dove avvenne l’attentato a Borsellino e alla sua scorta, poi, non aveva una zona di rimozione e neanche una garitta per vigilare sui movimenti sospetti sul luogo dove il magistrato andava ogni domenica a trovare la madre. Non era previsto, incredibilmente, neanche un elicottero in grado di proteggere dall’alto lo spostamento delle auto dei magistrati sotto sicura minaccia.
È noto poi che a Totò Riina nel 2014, dopo le famose intercettazioni in carcere in cui parlava troppo degli attentati con un altro mafioso, furono fatte minacce dalla misteriosa Falange armata: “chiudi quella maledetta bocca, ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo che ci pensiamo noi”.
La strage di Capaci, come quella di via d’Amelio, si colloca, insomma, per la sua modalità, qualità ed esecuzione, come un monito anti-italiano golpista, attuato da mani esperte, non solo mafiose, e ideato da “menti raffinatissime” (Falcone).
Infatti non bisogna mai dimenticare la telefonata fatta da Francesco Cossiga, un mese prima di morire, alla vedova Borsellino. L’ex Presidente della Repubblica, che si intendeva di intelligence, disse ad Agnese Piraino Leto che “la storia di via D’Amelio è da colpo di Stato”. Le parole dette da Cossiga, cosciente di concludere a breve la sua esistenza, hanno indubbiamente un peso specifico e un valore interpretativo diverso rispetto alle chiacchiere, ai depistaggi o alle finte ricerche della verità.
Le stragi del ‘93 con la presenza di donne sulla scena del crimine confermano, peraltro, il quadro altamente criminale e preoccupante della strategia d’attacco allo Stato. La mafia per le sue azioni non si serviva assolutamente di donne. E dunque chi erano quelle donne?
L’attentato in via Fauro, le azioni intimidatorie contro il governo Ciampi, gli attacchi al patrimonio artistico nazionale “parlano”, insomma. Indicano una strada che ci riporta a una linea stragista che ha insanguinato l’Italia durante la “prima repubblica”: una traiettoria coerente e maligna.
Ecco perché ancora oggi non bisogna smettere di volere la verità: un dovere verso i coraggiosi servitori dello Stato, un amore all’Italia.
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