Era frequente, in quel secolo variegato e possibilista che fu il Settecento, l’uso di decorare ecclesiastici o laici d’un titolo onorifico atto a rafforzarne il prestigio e ad ottener loro un beneficio, una sinecura (spesso una commenda) più o meno cospicuamente redditizia. E che, nel caso dei laici, con i semplici voti minori li autorizzava a vestire una caratteristica mise nera, spesso assai ricercata. Eran questi in Francia gli abbés, quali furono quegli stessi libertari Sieyès, Saint-Pierre o Mirabeau. Nell’Italia settentrionale erano gli abati: ossia i poeti Giuseppe Parini e Antonio Cesari, i librettisti Lorenzo Da Ponte e Giovanni Battista Casti; o il già mitico Franz Liszt degli anni romani.
Uno dei più spiccanti fra quelli che all’inizio del XVIII secolo con tal titolo esercitarono invece l’attività diplomatica e politica, fu l’abate Domenico Maria Giacobazzi, nato presso Sassuolo nel 1691, da una famiglia della nobiltà romana (de’ Jacobatiis) deracinée presso gli Estensi.
Dopo gli studi filosofici e giuridici, il giovane Domenico Maria accettò l’incarico di “capitano di ragione” a Nonantola, nel Modenese, trasferendosi nel 1716 alla podesteria di Sassuolo, ove ebbe l’occasione di conoscere il duca Rinaldo d’Este, che lì si recava con la corte a villeggiare. Nel 1719 ne ebbe il prestigioso incarico di ambasciatore presso la Corte Pontificia di Roma. Vi rimarrà fino al 1731, svolgendo alcuni incarichi di grande delicatezza politica e diplomatica.
Nel 1723 s’impegnò per sanare gli attriti fra il duca Rinaldo e papa Innocenzo XIII in merito alla competenza sulle nomine vescovili e fece rimpatriare il conte padovano Benedetto Salvatico, già maggiordomo maggiore del Duca, fuggito a Roma con importanti documenti. Ugualmente si attivò per la crisi con Venezia, sino allora alleata degli Este. Nel maggio 1731 l’abate venne d’urgenza chiamato a Parma in aiuto di Enrichetta Maria d’Este, da poco vedova del duca Antonio Farnese e “ufficialmente incinta”.
Era Antonio succeduto al fratello Francesco: e all’austerità della corte, al rigore delle finanze, all’osservanza cerimoniale, aveva fatto subentrare uno spirito gaudente, amantissimo di pranzi e di conversazioni, di musica e teatro. Tuttavia, ghiotto e pingue fino all’obesità, l’ancor giovane duca era morto, si diceva, d’indigestione il 20 gennaio 1731.
Giacobazzi riferirà anni dopo, nelle sue Memorie, l’altrettanto diffuso sospetto che la stessa corte di Vienna (assai interessata ai Ducati farnesiani) lo avesse fatto avvelenare. Il defunto Duca, nel suo testamento, rogato il giorno prima della morte, aveva nominato erede il “ventre pregnante” della moglie Enrichetta d’Este, da lui e da molti creduta incinta.
Esaminata da un cortigiano gruppo di medici e levatrici, lei era stata effettivamente dichiarata gravida di sette mesi; ma molti, tra cui Elisabetta Farnese, sorella del duca e regina di Spagna in quanto moglie di Filippo V di Borbone, consideravano quello “stato interessante” non più d’una messinscena.
Del resto in base al trattato di Londra del 1718, senza eredi diretti del Duca, Parma e Piacenza era ad Elisabetta Farnese che sarebbero dovute passare, ma con la clausola d’ulteriore cessione all’Infante don Carlos suo figlio. I Borbone rifiutarono d’ ammettere la veridicità della gravidanza di Enrichetta e beninteso la restituzione della dote, nonché della donazione prevista dal testamento del marito.
Vienna e Madrid non erano le uniche capitali da cui Parma e Piacenza venivano appetite. Da Roma Clemente XII cercava di fare valere gli antichi diritti della Santa Sede sui Ducati: e inviava in loco il commissario apostolico monsignor Giacomo Oddi, pronto a rivendicare, in nome di Sua Santità Parma, Piacenza ed assai altro. L’imperiale e reale corte d’Asburgo (che nel frattempo aveva fatto occupare militarmente gli stati in eredità) ben rimase insensibile alle proteste di Clemente XII, che richiamò da Vienna il cardinale Girolamo Grimaldi, nunzio apostolico in Austria.
Alla fine, forzosamente stilata la dichiarazione dell’inesistenza della gravidanza, nel marzo del 1732 è proprio Giacobazzi a recarsi dall’Infante Carlos di Borbone, a Firenze, per negoziare il vitalizio proposto ad Enrichetta dalla corte spagnola. L’accordo arriverà a conclusione solo fra gennaio e maggio del 1734, ma felicemente e contemplerà per la duchessa estense l’aumento del vitalizio, l’uso di palazzo Madama in Piacenza e di quello di Borgo San Donnino a Fidenza, nonché la restituzione della dote. Sì che dunque – grembi pregnanti o sterili, medici o levatrici, abati o nunzi, regine, duchesse o pontefici – Carlos Sebastián de Borbón y Farnesio, non più che adolescente (era nato a Madrid nel 1716) diviene il nuovo duca di Parma e Piacenza.
Tornato a Modena nello stesso 1734, Giacobazzi è ora l’abilissimo artefice dell’allineamento (in realtà un’amichevole resa) del ducato di Modena ai Francesi nella guerra di successione polacca. In quell’anno (ormai vedovo) viene fatto abate e meno di due anni dopo Rinaldo d’Este lo eleva a Segretario di Stato e Consigliere di Segnatura. Nel 1737 il successore di Rinaldo, Francesco III, istituisce un vero Consiglio di Stato, chiamando Giacobazzi a farne parte, certo individuandolo come uno degli uomini su cui poteva far perno la propria nuova politica riformistica. Nel 1749 l’abate è addirittura chiamato alla Presidenza del Consiglio di segnatura.
È il vertice della sua ascesa politica, ma anche l’inizio d’un mutamento delle sue fortune. Nel biennio 1752-1753 Giacobazzi viene estromesso dalla Segnatura, forse per contrasti interni: Francesco III però nel 1754 lo nomina suo “Auditore personale”, col compito di presiedere alla pronta esecuzione dei propri ordini, specialmente in materia giudiziaria e di istruzione pubblica. L’abate verrà infine allontanato dalla corte con la nomina, in odor d’esilio (o di pensionamento anticipato) prima a governatore di Correggio, poi di Sassuolo, e, dal 1764, di Castellarano. Ritiratosi in ultimo a Modena, Giacobazzi vi morirà il 27 maggio 1770.
Amico personale e a lungo corrispondente di Ludovico Antonio Muratori, collaborò con lui per il recupero di preziosi manoscritti (la celebre Cronaca di Farfa) e per uno scambio continuo di idee e notizie, di cui è superstite un epistolario da ritenersi ancor oggi fondamentale alla storia del periodo. E che è testimonianza della qualità intellettuale di un uomo che ha avuto le chiavi di molti affari nazionali e internazionali: e fors’anche di molti segreti ancora da scoprire.
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