Un appuntamento storico di grande rilievo attende non solo gli appassionati alle vicende tormentate della tarda epoca moderna, ma in generale tutti coloro che sono attenti alla causa della libertà religiosa vista attraverso il filtro del passato. Ricorrono, infatti, i duecento anni dalla morte di papa Pio VII, al secolo Barnaba Chiaramonti (14 agosto 1742 – 20 agosto 1823), il coraggioso benedettino che osò tenere testa all’imperatore Napoleone Bonaparte.
Mentre la storiografia italiana tace, suggestionata dalle figure dei papi-re, quella francese, molto più libera e indipendente (proprio perché attraversata da tante opzioni tra le quali si può quantomeno scegliere), ha sviluppato nuove riflessioni sulla figura di Pio VII, sulle sofferenze patite a causa delle pretese della politica imperiale, sulla tenacia nel difendere le prerogative di una Chiesa cattolica che a quel tempo non poteva (“non possumus”) accettare passivamente di diventare una branca del gallicanesimo francese.
Ecco allora che gli studi di Serge Ceruti (Le pape prisonnier de l’empereur, Paris 2022), di Jean-Marc Ticchi (Pie VII, le pape vainqueur de Napoleon?, Paris 2022) e tanti altri, restituiscono le giuste dimensioni di una personalità che in qualche modo giganteggia per avere tenuto ben saldo il timone della Barca di Pietro, avendo colto e compreso il clima politico-culturale del suo tempo.
Per comprendere quali sentimenti si agitassero in Chiaramonti a proposito di Napoleone e dei francesi, occorre risalire alla famosa incoronazione o consacrazione (Sacre) dell’ex militare di Ajaccio a imperatore dei francesi, avvenuta il 2 dicembre 1804 e immortalata nel famoso quadro del David. Già fu discutibile la scelta di Notre Dame come sfondo della cerimonia che, secondo logica, sarebbe dovuta avvenire a Reims, il sito deputato alle incoronazioni monarchiche. Ma si voleva una cornice di popolo a celebrare un’inversione nell’ordine dei poteri, tra lo spirituale e il temporale, per cui il papa accettò le modifiche all’antico cerimoniale rinunciando a imporre la corona all’imperatore, che salì sull’altare, si impossessò della corona e se la pose da sé in capo, ridiscendendo poi per incoronare l’imperatrice Giuseppina.
Si è sempre fatto riferimento, in proposito, a uno sgarbo istituzionale verso il successore di Pietro ridotto a spettatore ininfluente. Ma ciò non corrisponde al vero perché Pio VII, in Francia da settimane, aveva saputo del cerimoniale e avrebbe potuto rifiutarlo. Non lo fece e in più, cosa che il David non mostra, dopo avere benedetto il sovrano si ritirò in sacrestia rinunciando ad assistere al sermone dell’imperatore.
I rapporti erano già tesi a causa dell’altrettanto famoso Concordato francese del 1801, fortemente voluto da Bonaparte, allora Primo Console, sia per avere un episcopato più acquiescente, sia per incamerare definitivamente i beni della Chiesa requisiti dalla Rivoluzione. Il Concordato era appena stato firmato, quando, all’atto della ratifica, Napoleone arbitrariamente aveva introdotto alcuni articoli favorevoli agli altri culti non cattolici e pieni di concessioni indigeste per i cattolici (matrimonio civile, divorzio, ecc.).
Nonostante ciò, Pio VII non interruppe il dialogo con il popolo francese, subendo critiche dall’episcopato conservatore. Le giornate trascorse in ambito transalpino nel 1804 furono un vero trionfo per il papa di Roma. La gente lo applaudiva, lo voleva vedere, quasi toccare con mano. Napoleone probabilmente accusò il colpo: dalla sua erano le leggi e i regolamenti, ma il cuore della Francia palpitava ancora rivolto alla Santa Sede. Poi tutto di nuovo ripiombò nel conflitto, nella negazione della libertà religiosa. Tra il 1805 e il 1809 le relazioni tra Parigi e Roma si incupirono in modo irrimediabile. Nella costruzione napoleonica di un sistema imperiale non c’era posto per lo Stato della Chiesa. All’inizio del 1808 le truppe francesi entrarono nella Città Eterna e neutralizzarono le truppe pontificie. Il 17 maggio 1809 Napoleone decretò l’annessione alla Francia dello Stato Pontificio, appellandosi a Carlo Magno, suo predecessore che “aveva fatto dono alla Chiesa di qualche contea”, ritenuta evidentemente revocabile. Il papa fu tratto prigioniero a Savona, capoluogo del dipartimento di Montenotte, dove resterà dall’agosto del 1809 al giugno 1812, data del trasferimento a Fontainebleau. Si trattava di una prigionia, non di un piacevole soggiorno. Ad un certo punto furono impedite le visite dei vescovi italiani e francesi.
Napoleone, secondo i canoni della “sua” rivoluzione statalista, aveva in mente di trasportare la Santa Sede a Parigi, onde farne una dipendenza del potere civile. Rivivevano nella sua ottica le disposizioni gallicane di Luigi XIV, riviveva la lotta per le investiture di cui si accollava la parte del re che intendeva, lui, nominare i vescovi.
Il papa scriveva nell’aprile del 1810: “Vedo bene che dovrei rinunciare ai miei Stati ma non lo farò perché sono un sovrano senza dinastia e non posso cedere l’eredità dei miei predecessori”. Si riteneva un amministratore di beni ereditati, più che un monarca, e da questo punto di vista smontava l’accusa, circolante anche internamente al mondo ecclesiastico, di esercitare un potere mondano incompatibile con il messaggio evangelico.
Per piegare il papa ai suoi voleri addirittura l’imperatore indisse unilateralmente un concilio nazionale della Chiesa (giugno 1811) allo scopo di imporre le investiture dei vescovi. Il papa era allo stremo delle sue forze, prima accettò e poi respinse ogni decisione di un organismo illegittimo. Lo stesso imperatore fu costretto infine a sciogliere l’infruttuosa assemblea e a decretare lo spostamento del pontefice a Fontainebleau. Il viaggio fu terribile e per l’augusta personalità una via crucis quasi mortale. Pio VII si riprese lentamente mentre al contrario Napoleone inanellò gli insuccessi che dovevano portarlo alla disfatta di Lipsia dell’ottobre 1813. Il papa poté finalmente essere liberato, tornare a Roma e riavere i suoi Stati, anche se tutto era ormai cambiato e nulla poteva tornare come prima, nonostante la Restaurazione.
Tra il 1814 e il 1823 si riscontrò una crescente popolarità di Pio VII tra la gente, nata non solo in seguito ai passaggi per la Francia, ma soprattutto dallo scandalo del suo imprigionamento. La reclusione infatti, se non giocò un ruolo primario nel tracollo imperiale, erose la credibilità di un Napoleone che non poté più dirsi liberatore e fondatore di un nuovo sistema politico. È questa una lezione che può servire anche ai giorni nostri, a calibrare cioè il significato del bene comune che non può prescindere dalla libertà religiosa. Chi fu dunque il vero vincitore?
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