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Home » Chiesa » STORIA/ “Vivere come se dovessimo morire oggi”: la testimonianza del martire don Toufar

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STORIA/ “Vivere come se dovessimo morire oggi”: la testimonianza del martire don Toufar

Nel 1950 la polizia della Cecoslovacchia comunista arresta don Toufar, parroco di Číhošť, dove si è verificato un miracolo che ne nessuno vuol negare (2)

Raffaele Magaldi
Pubblicato 17 Maggio 2025
La tomba di Josef Toufar a Číhošť (foto di Hana Kubikova, da Wikipedia)

La tomba di Josef Toufar a Číhošť (foto di Hana Kubikova, da Wikipedia)

Gli organi di sicurezza tentano diverse volte di arrestare don Toufar, ma gli ordini che arrivano dall’alto sono di evitare ad ogni costo di coinvolgere la popolazione del villaggio. Serve quindi uno stratagemma, e il 28 gennaio 1950 gli agenti riescono finalmente a catturare il parroco di Číhošť. Gli si presentano come giornalisti, desiderosi di vedere il crocifisso del presunto miracolo. Don Toufar accetta di buon grado di accompagnarli in chiesa. La nipote Marie, che gli faceva anche da perpetua, non lo avrebbe mai più rivisto. Racconterà di come lo zio fosse parecchio irrequieto la notte precedente: camminava nervosamente nella stanza sopra la sua, recitando il Rosario. È veramente impossibile non vedere in questa scena un collegamento con quelle ultime ore irrequiete di Cristo al Monte degli Ulivi.


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La Via Crucis di Josef

Toufar viene portato nella prigione di Valdice: l’obiettivo del regime è costruire un processo farsa, costringendo il sacerdote a confessare di aver inscenato il miracolo dietro istruzione del Vaticano. Iniziano quindi gli interrogatori del parroco e di alcuni dei suoi parrocchiani. Non rinnegando i fedeli quello che avevano visto, il destino di don Toufar è segnato: obiettivo della StB è che sia portato a confessare l’inganno a qualunque costo.


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Entra qui in scena il responsabile del procedimento, il funzionario della polizia segreta Ladislav Mácha, che all’epoca aveva 26 anni. Nei documenti che sono rimasti disponibili negli archivi degli organi di sicurezza, Mácha emerge come un funzionario molto devoto alla causa, che in più scorge negli eventi di Číhošť una grande occasione per fare carriera.

Don Toufar subisce per quattro settimane gli abusi psichici e fisici di questo sadico servo del regime. Persino i suoi colleghi avrebbero avuto spesso difficoltà nell’accettarne il sadismo e la violenza. Le deposizioni ancora presenti negli archivi raccontano i particolari drammatici del metodo Mácha. Oltre alle dolorosissime percosse, vale la pena rimarcare la bestiale “Minestra di Karlovy Vary”: una poltiglia liquida salatissima che Toufar era costretto a ingoiare, causando una dolorosissima sete che doveva rimanere insoddisfatta.


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Le indagini svolte a più riprese negli anni successivi dimostreranno come le conseguenti due confessioni recanti la sua firma fossero evidentemente false: nella prima, Toufar ammetterebbe l’inganno dietro il miracolo; nella seconda, confesserebbe di essere omosessuale e di aver abusato di diversi ragazzini sotto la sua cura spirituale. In ogni caso, per la StB si passa alla fase successiva: la messinscena del processo. A questo scopo il regime decide anche di filmare una finta ricostruzione con cui dimostrare pubblicamente l’inganno, e Toufar viene quindi portato un’ultima volta nella sua chiesa a Číhošť.

Tutti i funzionari interrogati successivamente saranno d’accordo nel descriverne lo stato pietoso, le ecchimosi, i lividi, i lamenti e l’incapacità di muoversi. Nel video propagandistico il sacerdote compare solo per pochi secondi. Al termine della messinscena viene riportato a Valdice: durante il viaggio appare chiaro come le sue condizioni siano peggiorate.

Si decide di trasportarlo nel sanatorio sulla via Legerova a Praga (lo stesso dove 19 anni dopo sarebbe deceduto Jan Palach). I medici presenti all’arrivo sono sconcertati nel vedere lo stato in cui versa don Toufar: è evidentemente in fin di vita e nessuno dubita del fatto che sia stato picchiato brutalmente e ripetutamente. Un’operazione chirurgica di circa due ore, sotto lo sguardo vigile di un funzionario della StB, non basta a salvargli la vita: Josef Toufar muore il 25 febbraio 1950. Il regime si trova così improvvisamente privato della possibilità di inscenare il processo farsa sperato e con un cadavere scomodo da far sparire.

“Giustizia” e riabilitazione

Dopo la morte di don Toufar tutti gli agenti della polizia segreta coinvolti nel caso firmano un documento che impone il silenzio assoluto sugli eventi e sul destino del parroco di Číhošť. L’autopsia viene fatta falsificare per cancellare i riferimenti a molte delle tumefazioni riscontrate sul corpo del sacerdote, e il nome nella pratica in archivio viene modificato da Toufar a Zouhal. Non essendoci tempo per la cremazione, il corpo viene in tutta fretta trasportato nel cimitero di Ďáblice, dove viene sepolto in una fossa comune. La nipote Marie chiederà invano notizie dello zio negli anni successivi: verrà informata della sua morte soltanto nel 1954.

Nel 1968 un primo tentativo di riabilitazione viene bruscamente bloccato dall’invasione militare voluta da Brezhnev per chiudere il capitolo del “Socialismo dal volto umano” di Dubček.

Nel 1998 la Repubblica Ceca libera dal comunismo processa e condanna lievemente il principale responsabile della morte di Josef Toufar, ovvero quel Ladislav Mácha definito sadico e squilibrato dai suoi stessi colleghi. Una prima condanna a cinque anni di carcere viene ridotta a due anni in appello, e di questi Macha ne sconterà realmente soltanto uno. Si può davvero parlare di “giustizia” quando un simile assassino ha avuto la possibilità di morire serenamente da uomo libero (nel 2018), considerando che, nel frattempo, la sua vittima non era stata nemmeno ufficialmente riabilitata?

Può sembrare incredibile, ma la completa riabilitazione dell’eroe e martire Josef Toufar è arrivata solo nell’ottobre del 2024. La Chiesa cattolica, intanto, ha avviato il processo di beatificazione nel 2013. Una condizione vincolante perché si possa procedere è la riesumazione della salma del martire, e qui torna utile la documentazione conservata negli archivi degli organi di sicurezza: la bara contenente i resti di Josef Toufar viene riesumata il 14 novembre 2014. L’esame del Dna confermerà al 99 per cento l’identità del sacerdote.

La memoria e il ritorno a Číhošť

Finalmente, nel luglio 2015, Josef Toufar può avere il rito funebre e la dignitosa sepoltura che il regime comunista gli aveva negato. Tutto il villaggio è in festa per il ritorno di un parroco mai dimenticato e sempre difeso, la cui memoria è stata preservata nonostante il regime avesse fatto il possibile per cancellarla completamente.

Don Toufar viene tumulato al centro della chiesa. Sulla lapide, la potentissima frase tratta dalla sua omelia nell’ultimo giorno del 1949, che può considerarsi suo vero e proprio testamento spirituale: “Viviamo come se dovessimo morire oggi, vigilando da uomini saggi, guadagnandoci con il tempo terreno la vita eterna”. Come se dovessimo morire oggi (Itaca, 2015) è anche il titolo della biografia di Josef Toufar scritta dallo scrittore e poeta ceco Miloš Doležal.

Nell’immaginario di chi scrive, questa potentissima frase richiama non solo la lettura su cui poggiava l’intera riflessione di don Toufar (Ef 5, 15-20), ma anche quel motto latino che il giovane Silvester Krčméry fece suo da adolescente: “Nulla dies sine linea”, non passi un giorno senza che io sia attivo. Un invisibile fil rouge di fede e speranza che avrebbe sorretto negli anni successivi la Chiesa del silenzio cecoslovacca.

(2 – fine)

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